Democrazia senza vincitori

Democrazia della sintesi: ovvero senza vincitori

Francesco Damato

Provate a chiudere gli occhi e ad immaginare la Camera e il Senato, con tutti gli altri palazzi politici intorno, ma anche sopra, sino al Quirinale, poggiati come i Campi Flegrei su quel vulcano che da Napoli raggiunge Monte di Procida, al centro del quale c’è quel Lago d’Averno che Virgilio avvertì come la bocca degli Inferi. È quello che ho fatto dopo avere letto una lunga intervista al Fatto Quotidiano rilasciata da Gustavo Zagrebelsky, presidente della Corte Costituzionale per nove mesi nel 2004, e perciò tuttora emerito.

Egli si porta così bene i suoi 81 anni da poterne prevedere la guida della campagna referendaria contro il premierato, quando visi arriverà, come già fece nel 2016 contro la riforma costituzionale voluta dal governo di Matteo Renzi. Il quale si confrontò con lui in televisione battendolo, secondo il giudizio espresso da Eugenio Scalfari su Repubblica fra la sorpresa di buona parte della redazione e dei collaboratori esterni, ma venendone battuto poi nelle urne. 

 

 

Definita quella derivante da un’elezione diretta del presidente del Consiglio una «politica autoritaria», che «scende dall’alto e si stende sulla società, sugli individui e i loro diritti, e le loro diverse articolazioni economiche e culturali, associazioni, partiti, sindacati… insomma un potere conformativo, per non dire repressivo, a cascata, dall’alto verso il basso», il professore di scuola giuridica e storica rigorosamente torinese le ha contrapposto e preferito «la politica partecipata».

Che «si muove dal basso e procede verso l’alto… come una corrente alimentata da tante bolle sorgive che confluiscono e producono energia, ciascuna secondo la propria consistenza». Siamo a Procida, appunto. Come con le ciliegie, che purtroppo sono verso l’epilogo della loro stagione, e di cui si dice che a mangiarle l’una tira l’altra, il professore ha propostola politica «come l’arte non del comando ma della sintesi». Ed ha riconosciuto con un certo dispetto, dall’alto della sua sapienza e dottrina, che «la democrazia del vincitore è bella perché è semplice», ma troppo semplice,e naturalmente pericolosa. »La democrazia della sintesi», ha avvertito «è ancora più bella perché è difficile, complicata, faticosa».

Di una fatica e complessità che tuttavia andrebbero, anzi sono preferite, come dimostra la bocciatura referendaria della riforma costituzionale di Renzi, e domani di Meloni chissà, da chi «teme l’arrivo dei vincitori, quali che siano le loro bandiere». Lui, intanto, il professore, pur sapendosi districare per dottrina tra tanta confusione e complessità scrivendone o parlandone ai lettori, come prima facendo le sue lezioni agli studenti, che cosa fa nella pratica elettorale, quando è chiamato a votare non contro una riforma ma per un partito o per l’altro della democrazia delle bollicine, chiamiamola così? Par di capire che si astenga. O comunque riconosca le ragioni di chi appunto si astiene.

«Come tanti astenuti, anche lei è perplesso, professore?», gli ha chiesto l’intervistatrice Silvia Truzzi. «Certo che sì», ha risposto. E aggiunto, sempre all’insegna delle bollicine: «Amiamo i perplessi. Solo che le perplessità devono essere momenti di passaggio alle convinzioni… Altrimenti sono astenie, pericoli mortali per la democrazia», cui si approda - temo - proprio ragionando e indottrinando come il professore. Ricordo ancora con nitidezza una chiacchierata verso la fine degli anni Ottanta al Quirinale con Francesco Cossiga.

Che si sfogò con me contro la «superbia scientifica» - la chiamava così del presidente da poco emerito della Corte Costituzionale Leopoldo Elia. Cui in fondo non aveva mai perdonato di avergli, volente o nolente, conteso dietro le quinte la presidenza della Repubblica alla scadenza del mandato di Sandro Pertini. «Ma ve n’è uno ancora più superbo di lui», mi disse facendomi il nome di Gustavo Zagrebelsky. Che nel 1995 sarebbe stato nominato giudice costituzionale dal suo successore Oscar Luigi Scalfaro sul Colle più alto di Roma. Che acume, oltre che passione per la politica, non credo del modello Procida, quello del mio compianto amico Cossiga.