L'intervista

Giovanni Toti, l'accusa: "Più che con i pm, ce l'ho con la politica"

Pietro Senaldi

Con le persone giuste attorno, si può essere quasi felici anche dopo aver subito un’ingiustizia. D’altronde, spiega un sorridente Giovanni Toti, sigaro in bocca e camicia a righe azzurre aperta, «questo è il miglior giorno degli ultimi tre mesi, dall’alba di quel 7 maggio degli arresti a Sanremo, che resta il momento più buio di questo periodo. La Guardia di Finanza alla porta mentre stai per uscire a fare il tuo lavoro, uno choc».

Appena le Fiamme Gialle, inizio e fine del calvario, notificano la revoca degli arresti, la portavoce Jessica Nicolini e l’assessore, amico e vicino di casa, Giacomo Giampedrone, scattano. La moglie Siria Magri, giornalista e dirigente di Mediaset è in arrivo da Milano. È il giorno della festa, delle telefonate, del sole in giardino per scelta e non come unica opzione di vita. «Domani (oggi per chi legge; ndr) vado a Genova e incontro qualche persona. Il futuro? Ne parliamo seriamente dopo questo fine settimana, che sarà di riflessioni, bilanci e progetti».

Buongiorno presidente...
«Non lo sono più».

 

Già, per questo è libero...
«I magistrati sono stati onesti, lo hanno messo nero su bianco: finché fossi rimasto presidente, sarei restato anche agli arresti».

Lei non lo può dire, io sì: possiamo chiamarlo ricatto?
«Io ritengo che i magistrati abbiano eretto una costruzione giuridica contro la realtà, sancendo l’incompatibilità tra il ruolo di governatore e la situazione di indagato. Sostengono che un presidente che secondo loro ha commesso un reato durante la sua funzione debba lasciarla, altrimenti lo reitera. Siamo al processo alle intenzioni. Ma io non ce l’ho tanto con loro, anche perché almeno hanno detto chiaramente quel che pensano...».

E con chi ce l’ha allora?
«Con la politica. Un magistrato può sbagliare l’interpretazione della legge, e credo che nel mio caso tanti parametri normativi non siano stati applicati correttamente, ma non legifera. Il mio arresto e le mie dimissioni forzate sono la conseguenza della resa della politica di fronte alla magistratura. La politica, sentendosi screditata, ha ceduto al giustizialismo e al moralismo, abolendo ogni immunità e rinunciando al finanziamento pubblico. È l’arrendevolezza della politica ad aver armato la magistratura».

Il risultato è la politica sottomessa alle toghe?
«Il risultato è che, siccome la magistratura usa in modo improprio le armi che la politica le ha dato, in Italia è venuto meno il principio di tripartizione dei poteri. Una cosa teorizzata secoli fa da Hobbes e Rousseau. Se nel Seicento gli inglesi che scrissero l’Habeas Corpus, il principio che evita detenzioni senza fondate accuse, avessero avuto lo stesso poco coraggio dei nostri politici oggi, la democrazia occidentale come la conosciamo non sarebbe mai nata. Confido in un futuro istinto di autoconservazione della politica».

Che lezioni ha tratto dalla sua vicenda?
«In Italia si possono vivere situazioni kafkiane. Un processo non ancora iniziato ha già annullato una decisione del popolo. Non basta fare le cose per bene, ritenendole giuste, per evitare di essere accusati e arrestati. Chi mi accusa di corruzione non mi rinfaccia di aver preso neppure un euro. Sono più povero oggi, dopo dieci anni di politica, di quando facevo il giornalista, mestiere che non mi dispiacerebbe tornare a fare».

Veramente si parla di 76mila euro...
«Finanziamenti tracciati e pubblicizzati».

Soldi chiesti in cambio di favori, sostiene l’accusa...
«Non ho commesso atti illegittimi. La proroga trentennale del Terminal Rinfuse era legittima, tant’è vero che chi l’ha votata non è incriminato. Il cambio di destinazione di parte della spiaggia di Punta dell’Olmo non si poteva fare e non si è fatto».

La corruzione starebbe nel fatto che lei ha chiesto all’imprenditore Aldo Spinelli finanziamenti politici in cambio del suo interessamento...
«Il compito di un buon politico è interessarsi delle realtà imprenditoriali del suo territorio e attivarsi per rimuovere gli ostacoli di fronte a richieste d’aiuto legittime».

E i soldi chiesti al telefono?
«Ma un partito chiede soldi a tutti per finanziarsi. Lo abbiamo fatto al telefono, via mail, con delle chat... Ho aiutato anche chi non mi ha finanziato. Quanto a Spinelli, mi sostiene dal 2015. Non penso che lo abbia fatto per sei anni nella prospettiva di chiedermi poi un aiuto nel 2021. La cosa assurda di questa storia è che se due imprenditori vengono da me per due pratiche legittime e uno mi finanzia e l’altro no, per non passare per corrotto dovrei aiutare solo il secondo».

In che rapporti era con Spinelli?
«Non ho mai avuto con lui un rapporto privilegiato. Se mi intercetti per quattro anni e poi pubblichi solo le telefonate con lui o in cui mi occupo di lui, mi fai apparire come uno che vive per Spinelli. In realtà lo incontravo con la stessa frequenza con cui parlavo con imprenditori del suo calibro. L’ultimo incontro in Regione prima dell’arresto l’ho fatto con i fratelli Colaninno: hanno la tessera del Pd in tasca, ma producono dragamine sul fiume Magra e danno lavoro a centinaia di persone. Il loro capannone aveva un problema urbanistico e li ho ricevuti».

Ecco, ricevuti: la sinistra l’ha processata perché andava sullo yacht di Spinelli. Era opportuno?
«Ci andavo ma non in crociera, restavamo attraccati al porto industriale di Genova, Spinelli usa lo yacht come un ufficio, ha 84 anni e, malgrado abbia solo la quinta elementare, dà lavoro a quattromila persone. Parlavamo di lavoro. Ci andavo come faceva il mio predecessore del Pd, Claudio Burlando».

Il suo primo messaggio ai cittadini è stato viva la libertà: quanto le è costato riaverla?
«Mi è dispiaciuto moltissimo dimettermi; ma non per me, che ho provato un senso di liberazione rispetto al peso di dover onorare la carica stando chiuso qui dentro. Mi è dispiaciuto per la lesione democratica rappresentata dal fatto di vedere una carica elettiva equiparata di per sé alla potenzialità a delinquere. Nella Costituzione non sta scritto questo. I miei arresti sono epocali: mettono in discussione il potere di indirizzo politico di una carica elettiva, sostenendo che interessarsi al disbrigo di una pratica legittima sia reato per il solo fatto che si chiedano finanziamenti politici, in un Paese che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti».

I giudici replicherebbero che lei non sa distinguere tra reati e fatti leciti...
«Ma una carica elettiva non può essere ritenuta elemento esclusivo di potenziale reiterazione di un reato non concretizzatosi».

Lei però faceva dei favoritismi, per esempio a Esselunga...
«Esselunga è sbarcata in Liguria con vent’anni di ritardo, come ha scritto Caprotti nel suo libro-testamento. La concorrenza fa bene al mercato.
Le ho rivolto lo stesso interesse che ho dato a Basko, suo diretto concorrente».

Alla fine si è dimesso per tornare libero?
«No, l’ho fatto per consentire ai liguri di esprimere un giudizio politico sulla mia vicenda, al di là del processo. Dicano loro se il mio governo è stata un’esperienza criminale o invece un’esperienza di crescita, come rivelano i numeri».

Anche la sinistra che ha manifestato in piazza a Genova perché si dimettesse chiedeva un giudizio politico...
«No, loro chiedevano che lasciassi sostenendo che non potevo governare perché agli arresti. Ma non si sono chiesti quanto giusti fossero gli arresti e a quali conseguenze distorte stavano portando. Ho trovato il Pd di Elly Schlein succube del moralismo e del giustizialismo dei grillini e di Fratoianni e Bonelli. Il vecchio Pd ligure ha fatto tanti sbagli, non aveva compreso il cambiamento dei tempi, difendeva l’operaismo in un’epoca in cui l’economia viene tirata da tecnologia e turismo, ma era un partito serio, che ancora coltivava la cultura del lavoro. Oggi il Pd coltiva la cultura del sospetto verso chi lavora. Si fa dettare l’agenda da un ambientalismo surrogato della lotta di classe».

Se uno fa il campo largo, qualcosa deve concedere agli alleati...
«Il campo largo delle sinistre in Liguria c’è già stato, contro di me, e si è fermato al 37%. L’aveva organizzato Andrea Orlando, che leggo oggi sarebbe il candidato della sinistra, mandandomi contro Ferruccio Sansa».

 

Si ricandida alle Regionali, in teoria potrebbe?
«No, alla Liguria ormai ho dato quel che potevo. Non mi ricandiderò, devo difendermi in un processo, ma certo non sbaglierò a votare».

La Lista Toti si presenterà?
«Siamo il partito di maggioranza, in nove anni abbiamo vinto tutto. La Liguria è come la Gallia, divisa in tre: la sinistra pauperista, il centrodestra dei partiti, che si scambiano i voti a seconda di come va la marea, e una potente gamba civica e moderata che fa la differenza e che è giusto abbia un futuro, magari anche divisa in più liste. Oggi ho sentito tutti e ho rivisto il mio staff dopo tre mesi. Domani (oggi per chi legge; ndr) inizieremo a ragionare».

È una gamba che sta al centro o nel centrodestra?
«Guardi, sono d’accordo con Orlando: io sono l’opposto della sinistra».

E Renzi dove sta, a Roma con la sinistra, a Genova con Bucci?
«In Liguria sta con Bucci ma tifa Orlando, malgrado abbia detto poche settimane fa che io l’avrei battuto anche dai domiciliari, e che sta raccogliendo firme con la Cgil contro il suo Job’s Act. Sostiene anche la Paita, che è a favore delle infrastrutture contro le quali il Pd si è mobilitato. Che dire? È un fenomeno, che non ci riguarda».

Ha già in mente un candidato del centrodestra?
«Tanti, sia civici sia della mia lista, sia dei partiti. Non rinuncerò al mio ruolo di suggeritore, penso di essermelo guadagnato, ma saremo in tanti a scegliere».

Il leghista Edoardo Rixi?
«Sarebbe il migliore, per storia, credibilità, capacità realizzativa, ma so che non vuole. Proverò a tirarlo per la giacca, ma non si può costringerlo. A Roma sta facendo un lavoro importante, anche per la Liguria».

Dicono che si sia dimesso anche perché si è sentito abbandonato dal centrodestra, è vero?
«No. Matteo Salvini mi è stato più vicino di altri, forse perché anche lui subisce un processo assurdo, ma non posso dire di essermi sentito scaricato».

Le rimproverano un eccesso di grandeur...
«Non sono un tipo mondano, quel che ho fatto si chiama marketing. Per promuovere un territorio la comunicazione è fondamentale, non puoi pensare che la gente trovi la Liguria per caso gironzolando in macchina. La sinistra ha un concetto della Liguria tipo Unione Sovietica, con le maestose dacie dei gerarchi e intorno meno rompiscatole possibili. Era un turismo residuale di seconde case e buen retiro, io ne ho fatto una destinazione globale, come Saint-Tropez, Ibiza o Mykonos».

Ha paura del processo?
«Se ho sbagliato, pagherò».

Qualche recriminazione?
«Trovo strano che un organo costituzionale come un presidente di Regione sia intercettato per quattro anni senza essere informato di nulla. Sfido chiunque in un periodo così lungo a non incappare in dichiarazioni sconvenienti, delle quali comunque mi rammarico. In ogni caso, anche semplicemente come essere umano non è bello subire una cosa del genere; ti senti un po’ violato».

Adesso c’è la riforma Nordio...
«Introduce cose sacrosante, ma non sufficienti. Andrebbe riformato tutto il sistema giustizia. Ho letto conversazioni su di me di persone che non ho mai conosciuto che diventano capi d’accusa nei miei confronti. Bisognerebbe porre un limite».