Ancora lui

Scampia, Saviano contro il governo? Ma è una follia edilizia figlia dell'utopia rossa

Corrado Ocone

Le Vele di Scampia sono state definite, già molto prima della tragedia dell’altra sera, la “cattiva coscienza della sinistra”. Esse, infatti, sono testimonianza di quanti danni possa creare l’ideologia, una visione astratta della realtà, una utopia che, per la sua realizzazione, si lega a interessi politici ed economici. È una storia che merita di essere ricordata, e raccontata, perché a volte le tragedie nascono dalle buone intenzioni, delle quali come dice il proverbio è lastricata la strada che porta all’inferno. Scampia fino agli anni Sessanta semplicemente non esisteva: era un borgo rurale a nord di Napoli, ai confini con il comune di Secondigliano. Il paesaggio ridente pieno di alberi e terreni coltivati dava un senso a quell’espressione latina che oggi risuona come un vago ricordo: “Campania felix”.

Fu proprio qui, in questa zona dal vago sapore arcadico, che, coi primi governi di centrosinistra, si pensò di realizzare un enorme complesso residenziale che servisse da sfogo al centro della città, ormai congestionato. Erano gli anni della “programmazione economica” e di una Cassa per il Mezzogiorno pronta a finanziare lautamente ogni progetto di “sviluppo” e di edilizia popolare. Ma erano anche gli anni in cui maturava e si imponeva una cultura architettonica e urbanistica monopolizzata dalla sinistra, la cui “egemonia culturale” si consolidava anche attraverso, e forse soprattutto, l’azione di intellettuali non umanistici ma legati alle scienze pratiche.

 

 

Il Sessantotto, a Napoli come altrove, ebbe nelle facoltà di ingegneria ed architettura la sua massa critica. L’idea che si faceva strada era che l’emancipazione dei più poveri sarebbe avvenuta non per una loro concreta e personale volontà e crescita, ma per l’intervento di uno Stato potente e benevolo, sotto la guida di “illuminati” che ne sapevano più di loro stessi e che li avrebbero accompagnati per mano alla conquista della “città futura”.

Con una ipocrita compassione, che celava un sostanziale disprezzo per i diseredati, si pretendeva di plasmarne le vite creando a loro beneficio di un ambiente estetico e umano “perfetto”. Che poi questa utopia si incontrasse con un affarismo politico che si serviva dell’ideologia per coprire la propria sete di potere, non è da meravigliarsi più di tanto, è anzi un topos consegnatoci dalla storia del Novecento. Fatto sta che le Vele, costruite fra il 1962 e il 1975, furono esaltate come esempio di edilizia popolare modello, capolavori estetici, realizzazione pratica di un ideale di vita in comune e solidale che avrebbe ricreato i legami sociali dei vicoli in un ambiente moderno e funzionale. Era tutto il contrario, come sempre accade per i progetti disegnati “a tavolino” da chi non conosce le esigenze dei poveri che vorrebbe aiutare.

Nel frattempo, a Napoli diventava sindaco Maurizio Valenzi, un’icona del politico-intellettuale comunista e antifascista, eroe della Resistenza e pittore nel tempo libero. Fu sotto la sua spinta che, tra il 1976 e il 1980, più di un quarto degli abitanti del centro storico napoletano fu trasferito in modo più o meno volontario (qualcuno ha parlato di “deportazione”) nel nuovo complesso edilizio. A livello propagandistico, un vero successo per le nuove giunte di sinistra che, sull’onda dell’avanzata comunista, si insediavano nei maggiori centri italiani! Inutile dire che tutti quei servizi che avrebbero dovuto accompagnare questo trasferimento in massa, dai collegamenti veloci alle strutture pubbliche di ogni tipo, non erano ancora state realizzate. O, semplicemente, non erano state nemmeno pensate.

Scampia, con le sue Vele avveniristiche che erano in realtà casermoni-dormitorio, in poco tempo sarebbe divenuta la località con il più alto grado di criminalità, disagi psichici, piccola delinquenza, spaccio di droga, non solo del Sud ma di tutta l’Italia. Con un voltafaccia incredibile, fu la stessa sinistra che cominciò presto a denunziare i mali di Scampia, quei mali di cui era stata in ultima istanza la causa culturale e politica. Sul degrado di Scampia ha costruito le proprie fortune pseudo-letterarie Roberto Saviano, il quale in queste ore non farà certo mancare la sua voce, ben tenendo nascoste le responsabilità della sua parte politica.

Casomai accusando il governo e i “fascisti” dei morti del crollo. In trentacinque anni di ininterrotto governo cittadino, di riqualificazioni mai avvenute, di demolizioni di ciò che si era con tanto trasporto costruito, di trasferimenti di sedi universitarie a solo scopo di immagine, la sinistra dovrebbe solo fare autocritica. Non la farà. Intanto, l’astuzia della storia ha voluto che proprio uno dei ballatoi, concepiti come esempio simbolico e pratico dei legami sociali che avrebbero dovuto affratellare i “deportati” di Scampia, sia crollato. Così come la stessa astuzia ha voluto che l’incidente avvenisse proprio in quella Vela Celeste che, al contrario delle altre, si voleva tenere in piedi. Quanto all’Università, essa è stata invasa dagli sfollati. Fallimento più grande ed esemplare non poteva immaginarsi. Un fallimento pagato purtroppo con la vita da poveri innocenti.