Sprechi rossi

Vincenzo De Luca, come ha buttato 700 milioni di euro

Claudia Osmetti

Puntata due, la sanità campana. Ché per il governatore (dem) Vincenzo De Luca dubbi non ce ne sono mai stati: se esiste un problema, negli ospedali e nei pronto soccorso da Mondragone in giù, tuttalpiù si metta una mano sul cuore l’esecutivo nazionale. I soldi che non arrivano, le risorse che premiano gli altri, l’autonomia differenziata che, appunto, differenzia e sotto il Vesuvio, per lui, differenzia a perdere. Qualche mese fa, era marzo, per essere ancora più chiaro, De Luca aveva fatto tappezzare Napoli con cartelli sufficientemente eloquenti: «Il governo Meloni chiude i pronto soccorso». Colpa di Fratelli d’Italia, insomma. Del centrodestra, di Roma e della premier: di chiunque ma non della regione. La realtà, però, è un tantinello diversa. Ed è che a Napoli, ma anche a Salerno e a Caserta e a Benevento e ad Avellino, cliniche e nosocomi, punti di primo intervento e Asl, in sofferenza, lo sono da tempo (e il Pd, in Campania, proprio con De Luca, governa dal giugno 2015). I guai sono cominciati da molto prima che Giorgia Meloni mettesse piede a Palazzo Chigi e, di certo, da ancora prima che si iniziasse a parlare di una riforma sui temi locali.

Secondo una recente analisi di Anci Sanità Campania, la vita media italiana è di 84.8 anni per i maschi e di 85.2 anni per le femmine: ma si abbassa, attorno al golfo, di quasi due anni per categoria (in Campania è di 79.4 anni per gli uomini e di 83.6 anni per le donne). Dati, per carità, che presi così non vogliono dire assolutamente nulla: le cause sono molteplici, mica solo sanitarie. Tuttavia diciamo, citando la prima cosa che viene in mente, che quei cinque pronto soccorso chiusi negli ultimi quattro anni (al San Giovanni Bosco, al Loreto Mare, all’Ascalesi, al Santa Maria degli incurabili e al San Gennaro) un grosso aiuto non l’hanno dato. (Aperta parentesi: la polemica sull’emergenza, è vero, c’è stata sul serio. Ma è scattata a fine maggio, non a marzo, e va indietro fino all’anno nero del Covid, anno in cui il governo centrale era quello giallo-rosso del Conte due, poi è proseguita con quello tecnico di Mario Draghi e solo in volata, all’ultimo miglio, ha coinvolto la compagine melonina: forse De Luca dovrebbe aggiornare i suoi manifesti).

 

 

Idem per le liste d’attesa. Con mezzo Pd, non solo campano, che sbraita e s’indigna e i sindacati sul territorio che, invece, raccontano un’altra storia. Per esempio: «Ci vogliono cinque mesi per una visita isteroscopica, serve un piano straordinario della regione» (Mario Polichetti, Uil Pdl, Salerno). Poi gli sprechi. Che mai nessuno se li intesta, tutti li addebitano agli avversari politici e, alla fine, si sommano sul groppone dei soliti noti. Cioè dei cittadini contribuenti. Qui, a dare i numeri, in senso letterale, è la Fadoi, ossia la Federazione dei medici internisti ospedalieri. E, nessuna suspence, non sono numeri postitivi per la Salute campana: contano, infatti, tre ricoveri ogni dieci che si potrebbero tranquillamente evitare, per una cifra assoluta che arriva ai 230mila all’anno e un esborso complessivo di circa 690 milioni di euro (visto che ogni ricovero, mediamente, costa alle casse pubbliche, cioè a noi, 3mila euro).

D’accordo, il fenomeno non riguarda solo la Campania ma tutta Italia e il fatto che i vari sistemi non parlino tra loro è uno svantaggio comune: però le statistiche nazionali fotografano qualcosa come due milioni e 250mila ricoveri evitabili per uno sperpero di sei miliardi di euro; significa che la Campania, una regione che ha a malapena sei milioni di abitanti, da sola, vale su per giù un ottavo dello sciupìo nazionale. Non è poco. E non lo è soprattutto se ne aggiungono altri, di studi. Come quello di Agenas, che è l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, che tra l’altro ha come presidente Enrico Coscioni, che è stato consigliere per la Sanità proprio per De Luca. L’Agenas, a dicembre dell’anno scorso, ha dimostrato come, per il 2022, ossia per l’ultimo anno al momento disponibile, la Campania abbia speso una cifra monstre per i propri residenti che hanno deciso di curarsi, sì, ma fuori regione. Lo scontrino, salatissimo, ammonta a 22 milioni e 493mila e 134 euro. Che proprio bruscolini non sono. Affatto.

Inutile aggiungere che, già allora, De Luca non l’aveva presa benissimo. Però le carte son lì da vedere e le carte cantano: una gestione sanitaria commissariata per almeno un decennio, le chiusure a macchia di leopardo, il personale sanitario che (come altrove, purtroppo) manca. Il risultato non è dei migliori e non lo è perché da un lato circa un ricovero su tre non è necessario farlo, ma dall’altro migliaia di campani in ospedale ci vanno in Lombardia (il 15,67% sceglie l’istituto clinico Humanitas di Rozzano; il 9,2% l’Irccs San Raffaele; il 8,8% il policlinico di San Donato; il 6,12% l’Istituto europeo di oncologia e il 4,61% il San Rocco) o nel Lazio (un altro 28,62% opta per l’ospedale pediatrico Bambin Gesù, il 5,86% il Palidoro; il 15,15% il Gemelli; il 13,98% il centro integrato Columbus; il 2,57% il policlinico Umberto I e il 2,5% il Campus bio medico).

La corsa, via, lontano, non riguarda solo le strutture private accreditate, che sono una fetta importante, la maggior parte, il 66%, ma pure quelle pubbliche (un buon 33,8%): segno che qualcosa, in Campania, non funziona. Qualche mese fa Fanpage.it ha analizzato il mondo dei commenti social attorno al “gradimento” della società campana: su 90mila post e 420mila commenti e 3,1 milioni di interazione solo nei poli di Avellino e Benevento sono uscite considerazioni positive, in tutte le altre province tra disservizi e casi di cronaca, è stato il contrario. A conferma.

 

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