Intellettuali nel panico
La sinistra illiberale dà lezioni di liberalismo
Ieri su La Stampa il politologo Massimiliano Panarari, intervenendo in un dibattito che era stato aperto il giorno prima da un articolo di Giovanni Orsina, afferma in modo perentorio che «la famiglia allargata delle destre radicali non abbia deliberatamente alcuna intenzione, al di là di qualche dichiarazione di rito, di abbracciare una cultura politica liberalconservatrice».
Non si capisce quali dovrebbero essere le caratteristiche della destra ideale, ma pare chiaro che qua ci troviamo di fronte ad un topos consolidato: la destra "legittima" è quella che piace alla sinistra. Senza contare che si potrebbe ugualmente dire, con non poche ragioni, che al contrario è la «famiglia allargata delle sinistre» che non ha oggi alcuna intenzione di far propria una cultura politica riformistica odi socialismo liberale. Ma tant'è! Concentriamoci sui concetti. In verità, Orsina, forse per amor di simmetria, si era spinto decisamente oltre, affermando che la destra è sì democratica, ma anche illiberale. Panarari ci aggiunge il carico da novanta: per lui, la destra attuale fa a pugni non solo con il liberalismo, ma anche con la democrazia. Errano entrambi. Per Panarari la destra non supererebbe l'esame di liberalismo in quanto «reazionaria» e «anti-illuministica». Ma avrà mai qualcuno spiegato al noto politologo che il liberalismo trova la sua prima lucida formulazione, per la maggior parte degli studiosi, proprio in quegli autori (Burke, Constant, Madame de Stael, Tocqueville, l'italiano Cuoco) che concepiscono il proprio pensiero come "reazione" agli eccessi dell'illuminismo?
Non sembra poi particolarmente corretto dire che «la democrazia rappresentativa richiede un'adesione di fondo ai principi e valori del liberalismo». Non sarebbe più giusto considerarla come una forma di compromesso sempre da rinegoziare fra due principi da tener ben distinti, quello liberale e quello democratico appunto, come i classici hanno sempre avuto ben chiaro? In ogni caso, il liberalismo, per Panarari, richiede «la promozione del pluralismo e la tutela convinta dei diritti individuali e civili e di quelli delle minoranze». Accettiamo pure per buona questa definizione, ma non fermiamoci alle apparenze. Chiediamoci: non è forse, negli ultimi decenni, un elemento caratterizzante della destra, quella che ne ha segnato la fortuna elettorale, proprio il battersi contro il "pensiero unico" che la sinistra ha voluto imporre (altro che pluralismo!) alimentando, essa sì, forme di intolleranza ed esclusione? Non è forse avvenuto ciò proprio perché si è promossa una proliferazione dei "diritti", i quali hanno finito per coincidere, per indebita sovrapposizione, con l'ampio ventaglio di idee che costituiscono l'"agenda progressista"? Quanto alle "minoranze" che la sinistra ha inteso difendere, è evidente che si tratta di minoranze fortemente organizzate, le quali, in nome della non discriminazione, hanno spesso inteso porre il proprio discorso come unico, non accettando chi la pensasse diversamente. In sostanza, una sorta di "dispotismo delle minoranze" si è sostituito a quello classico "della maggioranza" su cui ci hanno abituato a riflettere i classici del liberalismo, da Tocqueville a Mill. Quella che Panarari chiama "ambiguità" della destra sui diritti non è altro che la consapevolezza di questa sorta di eterogenesi dei fini toccata ad essi: è giusto richiedere "uguaglianza", ma illiberale è un mondo ove, come nella fattoria orwelliana, sono tutti uguali ma qualcuno è più uguale degli altri.
L'"uguaglianza" dei liberali non è quella che tutto parifica, regola, standardizza, ma è quella che nasce dalla diversità e dalla pluralità. Con Giordano Bruno, si potrebbe ripetere che «non è armonia e concordia dove un essere vuole assorbire tutto l'essere». Una uniformità che la sinistra, come dimostrano ad esempio le politiche dell'Unione Europea a trazione rosso-verde, vorrebbe imporre per decreto, dall'alto (dal green alla regolamentazione dei comportamenti e degli stili di vita). E a cui la destra si è opposta con tutta se stessa, essendone premiata dagli elettori. Di grazia, non è proprio la lotta al costruttivismo la più tipica battaglia liberale? Si potrebbe continuare a lungo, elencando le battaglie per una tassazione più equa, oppure per la difesa della proprietà privata: tutti capisaldi del pensiero liberale che la destra, in modo più o meno coerente ed efficace, cerca oggi di difendere dall'assalto della sinistra. La destra è quindi liberale? Non lo so, né mi piace ragionare per modelli astratti o dare patenti distinguendo i "veri" dai "falsi" liberali. Quel che mi pare certo è che essa oggi svolge una funzione liberale di sana reazione a una cultura, essa sì, "illiberale" che la sinistra vorrebbe imporci per via politica. Per Panarari, però, la destra non supera nemmeno l'esame democratico. Abusando della categoria di "populismo", vaga e poco utile in questi casi, egli, sembra di capire, la giudica nemica della democrazia perché sollecita le pulsioni primordiali del dèmos, a cominciare dalla richiesta di «un uomo solo al comando». Che è un po' un altro classico difetto della sinistra intellettuale: il popolo è buono solo quando vota quel che la sinistra certifica a priori come tale. Ed esso, in ogni caso, va guidato e accompagnato per mano da chi sa cosa sia veramente il suo bene. Una concezione paternalistica del potere che è anch'essa, come ci hanno insegnato Kant e Humboldt, solo per fare qualche nome, l'opposto esatto del liberalismo (e non solo della democrazia).