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Elly Schlein, da fascisteria a bifobia: l'incomprensibile dizionario della piddina

Luca Beatrice

Trattasi di citazione apocrifa utilizzata in molteplici casi, rovesciamento dell’espressione latina “frangar non flectar”. Un grande politico del passato, Giulio Andreotti, aveva un modo tutto suo di parlare, concetti oscuri rappresentati attraverso giochi di immagini fuori contesto. Qualcuno usò per lui il motto “mi spezzo ma non mi spiego”. Nel mondo della cultura si diceva lo stesso dell’artista e poeta Emilio Villa, in tanti sostenevano fosse un grande visionario proprio perché era impossibile capire il senso di ciò che intendeva dire e forse non gli interessava neppure.

Tra i politici italiani Elly Schlein è certamente il campione del parlar difficile, o meglio del parlare per conto suo e darsi da sola le risposte- così si espresse lo scrittore Paolo Di Paolo e tale stile le venne rimproverato in diretta tv da Lilly Gruber - saltando persino per grado di astrusità il classico politichese. Perla recente campagna elettorale la segretaria del Partito Democratico si è ripromessa di essere più diretta nel linguaggio, eppure non ha rinunciato all’introduzione di neologismi, articolate perifrasi, equilibrismi sintattici di cui è necessaria la decodificazione insieme all’analisi logica che risulta ancora lacunosa.

 

Di recente Schlein ha detto di Giuseppe Conte: «marginalizzato dalla polarizzazione dello scontro tra me e la premier». Traduzione probabile: è il terzo incomodo, si sieda in panchina. Ogni sua frase deve contenere almeno una parola che finisca in -zione, quel suffisso (secondo il dizionario Oxford) col quale si formano sostantivi deverbali femminili che indicano un'azione e il suo effetto. Alla femminilizzazione del linguaggio ci avevano già pensato i Cinque Stelle introducendo nelle loro tragiche amministrazioni termini cacofonici come sindaca o assessora, e anche segretaria suona storicamente come una diminutio, un mestiere ancillare rispetto alla versione maschile del ruolo politico.

A proposito di parole nuove, inventate o forzate, Schlein se ne è venuta fuori qualche giorno fa con «fascisteria», citando credo involontariamente l’omonimo saggio di Ugo Maria Tassinari pubblicato da Castelvecchi nel 2001, aggiungendovi «la destra si può sverniciare», che ti fa pensare a Guido Meda (lui si un grande linguista) quando definisce un sorpasso di Pecco Bagnaia o Marc Marquez.

Il Partito Democratico, nato sulle ceneri del Partito Comunista cui nessuno ha mai chiesto di sverniciarsi da molteplici peccati non proprio veniali, nel linguaggio è sempre stato tradizionale e ben poco aperto all’innovazione, basti pensare allo “scandalo” tra i militanti quando Walter Veltroni, allora direttore de L’Unità, distribuì in allegato al giornale gli album dei calciatori Panini e le videocassette dei film italiani, cominciando dall’imbarazzante (per i comunisti sessuofobici) Ultimo tango a Parigi. Ma Elly Schlein è troppo giovane e troppo ricca per interessarsi alla lotta di classe così come la auspicavano i marxisti e forse non conosce il saggio che Lenin pubblicò nel 1920 “Sinistrismo, malattia infantile del comunismo”. A vederla ballare felice sui carri del gay pride con il viso decorato di arcobaleno si fa fatica a immaginare sullo stesso palco Enrico Berlinguer o Massimo D’Alema, però i tempi cambiano, lei non è certo operaista (ai lavoratori oggi pensa la destra) bensì «trasversale» (a cosa?), ovviamente ecologista e antisessista.

 

Da poco più di un anno, dall’inaspettata vittoria alle primarie del PD, Schlein ha cominciato il mandato all’insegna del «non parlo come mangio», inanellando tormentoni parodizzati come «esternalizzazione» o espressioni oscure del tipo «intersezionalità attorno a una visione condivisa di tipo ecologista, progressista, femminista». Alle assemblee studentesche degli anni ’70 ogni tanto un tizio dal fondo alzava la mano reclamando ad alta voce, «cazzo, compagni, fatemi capire!».

Il segnale che i compagni si sarebbero dovuti preparare a qualcosa di nuovo fu nell’introduzione di una nuova professionalità, l’armocromista, che non è un personal shopper come Enzo Miccio ma una specialista che ti suggerisce i colori da indossare per mandare agli elettori un certo tipo di messaggi progressisti e rassicuranti, e dopo un inizio complicato ora la segretaria ci ha abituati al suo look arcobaleno.

Ossessionata dall’ambiente, Schlein parla di «giustizia climatica e sociale» che tradotto in gergo popolaresco assomiglia al vecchio adagio «piove, governo ladro». Tralasciando «capibastone e cacicchi vari», ce l’aveva con i vecchi del suo stesso partito, oltre a proclamarsi come primo leader postcomunista dichiaratamente ecologista, insegue la contemporaneità sulla questione dei diritti, la cui griglia si è molto complicata aggiungendo all’appurata questione dell’omofobia, cui siamo ormai convinti persino noi poco propensi a modificare le linee guida tradizionali, termini nuovi come «omotransfobia e bifobia» nella composita casistica delle possibili discriminazioni. Altra locuzione che ha spesso pronunciato è «vittimizzazione secondaria»: persone vittime di un sopruso non lo denunciano nell’imminenza dell’accaduto per paura, attendono più tempo, talvolta anni, e proprio per questo non sono credute. Giudicare una donna per gli abiti indossati o per il suo aspetto è una forma di vittimizzazione secondaria, delegittimare il suo racconto solo sulla base dell’assunzione di alcol o sostanze stupefacenti è una forma di vittimizzazione secondaria. In termini giuridici la questione è assai complessa, intanto la segretaria dem l’ha assunta come modello politico.

Per concludere con il gettonatissimo «non ci hanno visto arrivare», citazione dal saggio di Lisa Levenstein a proposito del #metoo e sul potere rivoluzionario delle donne. L’ha usata quando ha battuto alle primarie Stefano Bonaccini, modo inelegante e privo di fair play perché non si irride mai l’avversario, l’ha rispolverata dopo i risultati elettorali, anche se rimane per fortuna una certa distanza di sicurezza.