Commemorazione

L'eredità di Berlinguer tornata a sinistra e quella di Berlusconi raccolta a destra

Francesco Damato

Per uno dei capricci non so se più della cronaca, della politica o della storia si trovano accomunati in questi giorni, da morti, due uomini che in vita non potevano essere stati più diversi come Enrico Berlinguer e Silvio Berlusconi. Che penso non avessero fatto in tempo neppure a conoscersi o solo incontrarsi, per quanto ne sappia da cronista della cosiddetta prima Repubblica. Della cosiddetta seconda, nata peraltro con l’esordio diretto di Berlusconi da candidato praticamente eletto alla guida del governo, ben prima del premierato ora all’esame del Senato, Berlinguer non aveva neppure potuto avvertire il sentore. Ne sarebbe probabilmente morto ancor prima.

Due uomini - dicevo di Berlinguer e Berlusconi- che più diversi non potevano essere stati per formazione culturale e stile di vita. Non dico di carattere perché lo avevamo avuto entrambi abbastanza tosto, pur nascosto con Berlusconi sotto la corteccia- quasi un ossimoro - di un’allegria permanente, contrapposta ad una mestizia della quale Berlinguer si sentiva ingiustamente vittima nella rappresentazione mediatica. E che solo lo straripante Roberto Benigni vinse sollevando il leader comunista con le braccia e dondolandolo sotto gli occhi prima esterrefatti e poi divertiti di quel misto di vigilante e assistente del segretario del Pci che era Tonino Tatò.

 

 

Attraverso le cui grinfie nessun giornalista, ma anche uomo politico, non poteva non passare per arrivare a Berlinguer: neppure un inviato storico come Giampaolo Pansa, Giampa per gli amici. Che nel 1976 riuscì a strappare al segretario comunista la clamorosa ammissione di sentirsi protetto sotto l’ombrello della Nato nei rapporti con l’Unione Sovietica. Una cosa - quella dell’ombrello atlantico aperto su di sé alle Botteghe Oscure da Berlinguerche mandò su tutte le furie nel Pci Armando Cossutta e dovette sorprendere fuori anche Berlusconi. Che aveva allora solo 40 anni e neppure immaginava per sé un futuro politico, bastandogli e avanzandogli i denari, i successi, la notorietà dell’imprenditore, per quanto passato nel 1948, da ragazzo, attraverso l’esperienza delle affissioni dei manifesti elettorali della Dc di Alcide De Gasperi contro il fronte popolare della sinistra composto dai comunisti di Palmiro Togliatti e dai socialisti di Pietro Nenni.

A quarant’anni dalla sua morte l’eredità politica di Berlinguer è tornata ormai tutta a sinistra, dopo essere passata non più tardi del 2021, solo tre anni fa, anche per le mani di un post-democristiano compiaciuto come Enrico Letta, appena eletto segretario del Pd. E richiamato a Roma da Parigi, dove lo aveva fatto scappare Matteo Renzi detronizzandolo nel 2014 da Palazzo Chigi. Gli occhi di Berlinguer sono stati fatti stampare sulle tessere del Pd di quest’anno da Elly Schlein, succeduta ad Enrico Letta al Nazareno. E spintasi la settimana scorsa a Padova per concludere la campagna elettorale perle europee esattamente come Berlinguer nel 1984. Ma diversamente da Berlinguer, che spinse il Pci all’unico e breve sorpasso sulla Dc col 33 per cento e più dei voti, la Schlein ha potuto portare il Pd non oltre il 24 per cento, sotto di quasi cinque punti alla destra di Giorgia Meloni.

Mentre l’eredità di Berlinguer è tornata tutta a sinistra, l’eredità di Berlusconi è tornata tutta a destra dopo i parossistici tentativi dell’antifascismo di professione - come l’antimafia denunciata ai suoi tempi da Leonardo Sciascia - di scoprire e proporre un Cavaliere alternativo alla Meloni, o comunque ad essa preferibile. I fratelli d’Italia della premier hanno appena portato a casa quest’anno un quasi 29 per cento vicino al 30,3 realizzato nel 1994 da Berlusconi nelle europee svoltesi a pochi mesi di distanza dalle politiche, dove il Cavaliere si era fermato, diciamo così, al 20 per cento. E ciò è avvenuto senza danneggiare - altra circostanza sfortunata per le opposizioni, che avevano scommesso sulla disarticolazione del centrodestra- le altre componenti della maggioranza di governo.

Né la Lega di Matteo Salvini e tanto meno la Forza Italia post-berlusconiana di Antonio Tajani, salita anzi al secondo posto nella classifica della maggioranza di governo. Non glien’è andata bene una, insomma, alla sinistra nello scontro furioso, quasi corpo a corpo, che ha cercato e condotto nella campagna elettorale contro una destra dipinta di un nero che più nero non si poteva o doveva immaginare.

 

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