Prospettive
Alessandro Campi: "Bruxelles non può ignorare l'onda di destra"
Gli elettori del continente si spostano a destra e la prima reazione della sinistra e dei liberal di Emmanuel Macron è proclamare che la destra deve restare fuori dalla maggioranza che deciderà la linea politica della Ue. A costo di fare una coalizione assieme ai Verdi, usciti sconfitti dal voto europeo. «Andasse così», dice Alessandro Campi, direttore dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano e storico della destra europea, «sarebbe un segno di grande miopia politica, un arrocco dettato dalla paura che rischierebbe, in prospettiva, di rafforzare ancora di più questa destra, che si continua a liquidare come estremista e populista, ma che in molti Paesi non è percepita in questo modo dagli elettori che la votano».
Eppure, professore, l’aria che tira in Europa è proprio quella della conventio ad excludendum.
«Io non credo che si vada ad una riedizione della vecchia “maggioranza Ursula” e quindi ad una blindatura di quella maggioranza con il solo obiettivo di escludere la destra, a partire da quella di Giorgia Meloni. Von der Leyen, nella sua frenesia di essere riproposta, pare assai ben disposta a prendere i voti di Fdi. E comunque, indipendentemente dal suo interesse personale, tener conto di come è andato il voto è una necessità politica».
Crede possibile una maggioranza aperta alle destre?
«Servono dei paletti, perché è chiaro che le destre non sono tutte uguali, ma chiudersi a fortezza non avrebbe alcun senso. Allora sì che tra cinque anni si scatenerebbe il diluvio».
Quale diluvio?
«Lo abbiamo già visto in Italia. Quando non tieni in considerazione il voto degli elettori, non è che gli elettori si convincono e cambiano idea, ma si incaponiscono ancora di più nei loro convincimenti. In ogni caso, anche ammesso che si vada ad una riedizione pura e semplice della vecchia maggioranza, è impossibile che venga riproposta la medesima agenda della legislatura europea che si è appena chiusa».
Il voto europeo ha affossato il Green Deal?
«Sono venuti all’attenzione temi e istanze dei quali non si può non tenere conto. La questione del Green Deal, il peso che debbono avere gli Stati nazionali rispetto a Bruxelles, l’importanza di misure “protezionistiche” a difesa dell’industria europea, politiche più restrittive sull’immigrazione... Su questi e altri temi l’agenda dell’Europa di domani, quale che sia la maggioranza, sarà notevolmente diversa da quella di cinque anni fa. Proprio in conseguenza di questo voto».
Le due destre, quella sovranista di Marine Le Pen e Matteo Salvini e quella conservatrice di Meloni, sono davvero sovrapponibili come dicono il Pd e gli altri partiti socialisti europei, che chiudono le porte ad ambedue?
«I socialisti commettono innanzitutto un errore analitico, perché tra queste destre esistono differenze evidenti. Non solo Giorgia Meloni non è sovrapponibile ai tedeschi di Alternative für Deutschland, ma nemmeno a Marine Le Pen. Fdi ha fatto un percorso che lo rende obiettivamente diverso rispetto ad altri partiti. E poi fanno un errore politico».
Quale?
«I socialisti debbono tener conto che il maggior azionista del parlamento europeo, il Partito popolare, anche per coprirsi rispetto al proprio elettorato più conservatore, già da qualche anno ha cominciato a distinguere tra i partiti di destra con cui si può dialogare, tra cui Fdi, e quelli con cui bisogna avere un atteggiamento intransigente».
I socialisti hanno già avvertito il Ppe di non “aprire” a nessuna di quelle forze.
«Nell’atteggiamento dei socialisti vedo tanta paura».
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Paura di cosa?
«Che possa essere replicato su scala europea il modello italiano, nel quale destre anche molto diverse loro, smussando un po’ gli angoli, sono riuscite a trovare un punto di sintesi. È successo da noi e ora la sinistra teme che, in prospettiva, possa accadere anche in Europa. Così gioca d’anticipo provando a liquidare tutte queste destre come “impresentabili”».
Uno schema di gioco non nuovo.
«Sì, ma è successo qualcosa che ha cambiato il gioco. La guerra ha ridefinito i rapporti di forza all’interno dell’Europa, ha costretto le famiglie politiche a riposizionarsi, è stata il grande fattore di legittimazione di Meloni su scala internazionale. Puoi alzare tutti i muri che vuoi, avere tutte le pregiudiziali di questo mondo, ma non puoi ignorare quello che è successo. Credo quindi che i socialisti, che ora si mostrano così assertivi e intransigenti, dovranno assumere un atteggiamento più pragmatico».
Emmanuel Macron ha sciolto le Camere, i francesi torneranno alle urne il 30 giugno. L’esito di quel voto condizionerà i futuri equilibri europei?
«Se il Rassemblement National dovesse vincere e andare al governo ci sarebbe una situazione inedita, sotto certi aspetti divertente. Inizierebbe un regime di coabitazione tra Macron, il presidente, e un primo ministro che non potrebbe che essere Jordan Bardella o un esponente del suo partito. Per evitare che questo accada Macron, avvalendosi delle peculiarità del sistema politico francese, sta cercando di organizzare una riedizione del “fronte repubblicano” contro la destra».
Che in passato ha sempre funzionato.
«Ha funzionato per le presidenziali, ma stavolta perle legislative non sarà facile. È vero che in Francia c’è il doppio turno, e quindi ai ballottaggi si potrebbero creare aggregazioni ad hoc contro i candidati di Bardella. Ma sarebbe un’operazione molto complicata, anche perché presuppone l’unità di tutte le forze alternative al Rassemblement National: i macroniani, i socialisti, i repubblicani, i populisti di sinistra... cosa che io non darei per scontata, perché sono forze molto divise. È un azzardo. In ogni caso, comunque vada quel voto, l’asse franco-tedesco attorno al quale a lungo si è preteso di far girare l’Europa si è già indebolito. La guerra ha cambiato gli equilibri europei, altri Paesi hanno assunto un ruolo strategico dal quale non si può prescindere».
Quali Paesi?
«Guardiamo la Polonia. Si può continuare ad insistere sull’asse franco-tedesco, quando c’è un Paese di quasi 40 milioni di abitanti che ha un’economia ormai fortissima ed è l’ultima frontiera d’Europa sul versante russo? Chiunque lo governi, si chiami Tusk o Morawiecki, è un Paese strategico e lo resterà. E poi c’è l’Italia, il cui peso non può che aumentare, anche perché è uscita molto bene da questo voto».
Per il buon risultato di Meloni?
«Non solo. Oltre a Meloni, il cui governo è l’unico che non è stato sanzionato dagli elettori, che anzi lo hanno premiato, altri due leader escono rafforzati dalle urne e sono pronti per avere un ruolo importante in Europa. Forza Italia è cresciuta e Antonio Tajani, il terminale italiano del Ppe, conterà moltissimo nei futuri equilibri. Ed Elly Schlein ora è la leader della formazione socialista più numerosa del parlamento europeo. In una logica di sistema nazionale, ci sono motivi per essere ottimisti circa il ruolo da protagonista che l’Italia potrà svolgere nella nuova Europa».