L'indagine

Giovanni Toti? Dell'imputato si sa tutto, ma guai a parlar male del Gip

Pietro Senaldi

Ieri, al primo momento utile, la mattina seguente le consultazioni europee, l’avvocato Stefano Savi ha presentato al giudice preliminare del tribunale di Genova istanza per la revoca degli arresti domiciliari imposti al suo assistito, il presidente della Liguria, Giovanni Toti, confinato in casa ormai da cinque settimane. Le motivazioni della richiesta sono scarne quanto logiche e difficilmente confutabili. Gli arresti erano stati giustificati dal gip dal rischio che il governatore reiterasse il reato di corruzione elettorale, per il quale è indagato in riferimento alle Regionali tenutesi nel 2020. La difesa smonta la tesi in maniera definitiva puntando su quattro argomentazioni.

La prima è che il voto ormai c’è già stato, peraltro senza che Toti o politici a lui riferibili si candidassero, e che quindi la corruzione non è più possibile; inoltre il rinnovo della giunta ligure è lontano nel tempo, previsto a fine 2025, tanto da trasformare eventuali arresti prolungati fino a quella data in una decadenza di fatto dalla carica. La seconda è che Toti è stato indagato per quattro anni dopo il 2020, senza che mai risultassero attività di corruzione elettorale, e quindi non si vede perché, da indagato sotto la lente della Procura, dovrebbe porre in essere atti che non ha mai fatto nelle campagne per il voto successive al 2020, quando si sarebbe potuto muovere più liberamente di oggi. La terza è che le indagini sono state talmente lunghe da potersi ritenere esaustive.

 



La quarta argomentazione, la più importante, anche per i ricaschi politici non solo sul governatore ligure ma su tutti gli amministratori potenzialmente indagati in futuro, è che, scrive Savi, «se il ritorno in carica del presidente della Regione venisse considerato di per sé come elemento determinante per l’inquinamento probatorio, ciò si tradurrebbe in una sospensione dell’incarico, trasformando di fatto l’inizio di un’indagine in ragione di decadenza, cosa non prevista dalle norme». È il passaggio in cui la difesa contesta la tesi della sinistra, e della Procura, per cui l’indagato deve dimettersi per mandare avanti la Regione e difendersi meglio, spiegando che questa interpretazione sarebbe di fatto un ricatto: ti libero se te ne vai. Questo meccanismo, se accettato dalla politica, la renderebbe succube delle decisioni dei magistrati inquirenti, a prescindere da ogni condanna o colpevolezza, violando il principio della tripartizione dei poteri dello Stato. La decisione spetta ora al gip genovese Paola Faggioni, la quale finora non si è mai discostata dalle opinioni della Procura, che sappiamo al momento contraria all’attenuazione delle misure di interdizione al governatore.


A proposito della dottoressa, si registra che l’Associazione Magistrati della Liguria ha diramato ieri un comunicato in cui attacca Libero per aver scritto, sabato scorso, che la madre della donna ha militato per dieci anni in consiglio comunale a Genova nelle file della Margherita e del Pd e, alla vigilia del voto dello scorso fine settimana, sosteneva la candidatura della dem Patrizia Toia alle Europee, con tanto di foto pubblicata sui social dell’onorevole. Le toghe parlano di «inaccettabile profilatura delle presunte opinioni politiche dei familiari più stretti della giudice per screditare l’imparzialità e la correttezza della stessa». L’Anm locale sostiene anche che «in trasmissioni televisive ci sono state prese di posizioni offensive da parte di politici e giornalisti, che si sono spinti a definire i magistrati impegnati nel procedimento ligure come un’associazione a delinquere».


Poiché tirati in mezzo, specifichiamo due cose. La prima è che non ci sono stati profilature o dossieraggi di sorta, né manine che ci hanno dato fogli proibiti, come quelli che talvolta passano dagli uffici giudiziari alle redazioni amiche. Libero non ha intercettato per anni la dottoressa Faggioni né sua madre. Ha visto una foto della signora Maria Rosa Biggi mentre supportava una candidata del Pd, e che lo stesso partito ha postato sui social, e l’ha ripubblicata, rendendo lettori ed elettori edotti di una cosa di pubblico dominio, ovverosia che la mamma della giudice è stata, ed è, impegnata politicamente con la parte che chiede le dimissioni di Toti. Nulla di male, lo abbiamo specificato: perché allora le toghe si impuntano, quasi si vergognassero della notizia o avessero preferito che rimanesse nascosta? Ritengono forse inopportuno che un politico di centrodestra sia giudicato dalla figlia di un’attivista dem? Degli indagati, ancora innocenti, possiamo sapere tutto, anche gli aspetti personali che non c’entrano con l’inchiesta, ma di chili giudica non dobbiamo conoscere neppure da dove arrivano, anche come educazione politica: strano ragionamento per dei giudici. Noi di Libero la pensiamo diversamente e, siccome l’indagine genovese ha evidenti ricaschi politici, abbiamo ritenuto nostro dovere fornire un quadro completo degli equilibri in gioco, stupendoci di essere stati i soli a farlo, avendo noi riportato fatti noti in città.

Per quanto riguarda l’accusa di aver parlato di associazione a delinquere riguardo alle toghe impegnate nell’indagine ligure, essa, riferita a noi, è una menzogna, e spiace che arrivi da dei magistrati, ancorché l’Anm non è un organo istituzionale ma una congrega di privati cittadini. «Dipingi i magistrati come dei delinquenti» è un’accusa che, alla trasmissione Diritto e Rovescio, mi ha mosso il sindaco dem di Pesaro, Matteo Ricci, che lo ha detto in senso provocatorio. Io però ho risposto specificando di «non aver mai pronunciato e neppure immaginato una cosa simile, e che quelle considerazioni erano solo sue». Sicuramente, come me, Ricci non pensa tali mostruosità; i magistrati liguri però, nel caso, sanno a quale casella indirizzare le loro lamentele.