Nel baratro

Conte, figuraccia con gli industriali. La crisi nera del leader del M5S

Daniele Capezzone

Una gaffe del genere – come direbbero i telecronisti di calcio – è “tanta roba” anche per gli impegnativi standard di Giuseppe Conte: collegarsi con un evento dei giovani di Confindustria e parlare di “capitalismo infetto” davanti a una platea di imprenditori è un autogol memorabile, uno spararsi sui piedi. Al punto che la successiva sfuriata di Emma Marcegaglia (la quale, ascoltata la chiassata del pentastellato, ha virtualmente fatto a pezzetti la pochette di Conte, intervenendo dopo di lui) è parsa una specie di verbalizzazione del moto di fastidio che aveva attraversato tutta la platea, indipendentemente dall’anagrafe e dagli orientamenti politici degli industriali presenti in sala.

Ma – a ben vedere – quella di Conte non è stata una gaffe, o non è stata solo una grave e spiacevole scivolata: si tratta invece della conseguenza abbastanza naturale della deriva estrema che la sua campagna ha assunto. Deriva estrema che a sua volta è figlia della disperazione politica che ormai attanaglia l’ex primo ministro. Pensateci: appena tre mesi fa, al tempo delle regionali in Sardegna, Conte stava come un principe, politicamente parlando. Dentro il partito, aveva fatto piazza pulita di ogni presenza ostile (o anche solo minimamente pensante). All’esterno, gli era riuscito il capolavoro di rendere la Schlein totalmente gregaria. Peraltro, di lì a poco, le disavventure pugliesi dei dem gli avrebbero consentito di tenere sotto scacco quel partito anche dal punto di vista della questione morale. Quanto ai media, al di là del tifo sfrenato del Fatto, c’era l’incredibile inseguimento del gruppo Gedi, Stampa e Repubblica, in gara per intervistarlo e coccolarselo. Landini, poi, era da sempre in sintonia: tra massimalisti e urlatori ci si trova naturalmente bene. Morale: il passo falso sardo del centrodestra lo aveva illuso di poter egemonizzare il “campo largo” e contemporaneamente di essere in grado di preparare nientemeno che una clamorosa “spallata”.

 

Neanche cento giorni dopo, però, tutto si è rovesciato. Sconfitte rovinose in Abruzzo e Basilicata, campo largo saltato, e, nonostante un’egemonia programmatica effettivamente realizzata a sinistra, sondaggi molto deludenti per i grillini. Nelle scorse settimane è arrivata perfino un’umiliazione cocente per mano di Paolo Gentiloni, che ha fatto a brandelli il totem del Pnrr contiano, rivelando che i fondi assegnati a quel governo furono decisi da un algoritmo, altro che battaglia epica condotta in Europa... E adesso, verso le urne dell’8-9 giugno, la realtà è che – per paradosso – proprio il fatto che la linea politica di Schlein appaia poco distinguibile da quella di Conte fa sì che entrambi peschino nello stesso bacino, e che Elly abbia notevoli chances di riassorbire molti voti finiti in passato nel serbatoio grillino. Morale: a meno di sorprese, a urne chiuse, la somma dei risultati dei due partiti resterà più o meno la stessa di qualche mese fa, ma con una probabile forte redistribuzione del dosaggio a favore dei dem. Non solo: ciò che terrorizza Conte è il rischio astensione (a onor del vero abbastanza sottovalutato da tutti i leader). Ma nel caso dei pentastellati c’è da perderci il sonno: stavolta non ci sono sussidi da promettere, non sono in palio né tesserine gialle né superbonus, e gli elettori che al Sud votarono in massa per il Movimento potrebbero fare del prossimo weekend una meravigliosa occasione per trascorrere un giorno e mezzo al mare. Aggravando così la disperazione di Conte e Casalino.

 

Nasce da qui il clamoroso innalzamento dei toni degli ultimi giorni, con livelli parossistici e involontariamente comici. Il tradizionale giustizialismo grillino si è trasformato nella denuncia del “capitalismo infetto”; il solito pacifismo filo-dittatori è diventato l’annuncio roboante della “terza guerra mondiale” ormai in arrivo (scongiurabile però – immaginiamo – votando Carolina Morace, Gaetano Pedullà e Pasquale Tridico: in quel caso i cannoni si fermerebbero d’incanto). Ogni esibizione tv diventa una scenata, una piazzata, un comiziaccio di Conte: volto paonazzo, voce alterata, accuse sparacchiate a destra (contro Meloni) ma pure a manca (per sottolineare le differenze con Schlein). Ma la realtà della campagna elettorale è addirittura mortificante: mentre Elly gli sta tagliando l’erba sotto i piedi, lui deve alzare i toni sulla pace per contendere decimali alle liste di Bonelli-Fratoianni e di Santoro, e in più agita metaforicamente le manette per aggrapparsi al mito della diversità grillina.
Decisamente un periodaccio per Conte. Peggio di lui stanno solo quelli che lo avevano incoronato nientemeno che “punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti”.