La battaglia sul Jobs Act

È sul lavoro la sfida finale tra riformisti e conservatori

Paolo Reboani*

Il lavoro è diventato dalla fine del Novecento il vero crinale di divisione tra riformisti e conservatori, tra coloro che intendono le politiche del lavoro e il diritto del lavoro quali strumenti duttili e flessibili per garantire tutele alle persone e coloro che continuano ad interpretare il mercato del lavoro con una sola lente, sempre più sfocata, quella del lavoro fordista dell’Ottocento.

Questa frattura, occorre dirlo con grande chiarezza è nata nel 1984 con il referendum sulla scala mobile (vinto dai riformisti di Bettino Craxi e perso dai conservatori di Berlinguer e della Cgil) e non si è mai ricomposta, anzi, a vedere ciò che sta accadendo con la chiamata referendaria contro il Jobs Act (o sul ripristino dell’art.18) viene costantemente rialimentata, con il risultato di allontanare il dibattito politico dal vero problema del mercato del lavoro in Italia: i bassi salari (ancora) e la insufficiente partecipazione (nonostante i risultati record ottenuti in termini di tasso di occupazione). Un problema del quale si dovrebbero avere ben chiare le responsabilità: un sistema contrattuale inadatto al mercato del lavoro del XXI° secolo.

MISTIFICAZIONI - Ora, non si può onestamente tacere di fronte alle mistificazioni e al ribaltamento che viene fatto in questi giorni della storia delle riforme del lavoro in Italia. Stupisce che i cosiddetti riformisti del maggiore partito di opposizione (anche coloro che oggi hanno responsabilità di peso in quel partito) rinneghino la loro storia ed è incredibile che anche dalla parte opposta dello schieramento non si sia compreso in questi anni come questo sia il vero elemento di divisione tra i due schieramenti in Italia (e non basti solo abolire il reddito di cittadinanza) ed anche - purtroppo - in Europa.

 

 

Scala mobile, articolo 18, salario minimo sono solo le manifestazioni contingenti di uno scontro tutto ideologico su come costruire il modello sociale italiano. Uno scontro che si vince solo con la fermezza delle proprie ragioni e non cercando di mimetizzare il Dna riformista. La fermezza delle idee riformiste è costata pesanti perdite umane: Tarantelli, D’Antona, Biagi solo per ricordarne alcune. Ora appare assai stupefacente che per sostenere referendum abrogativi che ci riporterebbero indietro negli anni, anzi nei secoli, venga mistificata non solo la realtà dei dati (che possiamo anche interpretare nelle maniere più varie ma certo è difficile contestare il numero record degli occupati) ma anche la realtà della storia.

CIRCO MASSIMO, 2002 - La manifestazione del Circo Massimo del 2002 è stata la più grande manifestazione contro la riforma delle politiche del lavoro, contro l’abolizione dell’art. 18, quella che ha trasformato definitivamente un sindacato nel sindacato dell’immobilismo e della conservazione. Non ci sono altre spiegazioni, a meno di volere fare una operazione di revisionismo storico che non può essere accettata.

Descrivere il Jobs Act come un atto in discontinuità con le leggi Treu e Biagi significa avere perso le coordinate del dibattito sulle politiche del lavoro, poiché esso è stato l’atto finale di una storia iniziata con quelle riforme (e terminata con un atto del governo Monti) e che altrimenti non sarebbe stata possibile: un poco come Tony Blair non sarebbe stato possibile senza Margaret Thatcher.
In questo Paese sarebbe bene essere coerenti, coraggiosi ed onesti intellettualmente per dare un livello diverso al dibattito politico.
E se dal passato passiamo al futuro ecco che ben si delinea il nuovo punto di frattura tra progressisti e conservatori: riforma della contrattazione contro salario minimo. Perché fa bene il sindacato a ricordare che i salari in Italia sono bassi (soprattutto i salari mediani) e che una classe media sta scomparendo (se non è già scomparsa) ma farebbe bene anche a rammentare che il principale protagonista della politica salariale è il sindacato stesso. Ed invece di chiamare in aiuto la legge dovrebbe diventare attore protagonista di una politica salariale più aggressiva (legata ovviamente alle variabili di produttività).

 

 

LA STORIA INSEGNA - Anche qui soccorre la storia, quella vera non quella mistificata. È dal Protocollo del 1993 che appare necessaria una riforma del sistema di contrattazione non più fondata sulla rigidità salariale del contratto collettivo (lo sostenevano anche Gino Giugni e Massimo D’Antona, tanto richiamati in questi giorni, nonché Ezio Tarantelli). Eppure ben poca strada si è fatta in questa direzione.

I governi in questi anni, timidamente (troppo timidamente) si sono fatti promotori di un sistema fiscale incentivante del salario. Imprese e sindacati, a loro volta, sono rimasti imprigionati nelle loro paure e in visioni vecchie di un secolo. Sarebbe il caso di muoversi con maggiore coraggio e scardinare l’ultima legame con un mercato del lavoro e relazioni sindacali ormai superate.
Ce la faranno i nostri eroi? Non lo sappiamo ma almeno i riformisti sappiano ritrovare tutte le loro ragioni e si superi un dibattito che ideologicamente ci riporta nel passato per vivere invece nel prossimo futuro, quello dominato da nuove catene di produzione e dall’intelligenza artificiale. La mistificazione della storia non farà vincere quelli che sono già stati sconfitti ma fa arretrare il Paese tutto. Ne siano consapevoli anche coloro che oggi hanno maggiori responsabilità di governo.
 

*Membro della commissione di garanzia degli scioperi (le opinioni qui espresse sono interamente imputabili allo scrivente e non impegnano l’istituzione di cui è componente)