Derive mentali

Sinistra, si dicono perseguitati per restare privilegiati

Corrado Ocone

La deriva illiberale è già iniziata». «La svolta ungherese». E ancora: «libertà di espressione in pericolo», «il fascismo iniziò così», «emergenza democratica», «questo è un regime». Sono solo alcuni dei titoli urlati di alcuni fra i più diffusi quotidiani italiani, che ricalcano le idee di diversi esponenti del nostro mondo intellettuale e mediatico. E già questo indica un paradosso: si è mai visto un regime che permette ai suoi oppositori un tale tam tam? Si tratta chiaramente di un’operazione strumentale e disperata che la sinistra tenta per ricavare un profitto politico a buon mercato da una descrizione di fantasia della realtà in atto. C’è tuttavia un’ulteriore lettura dell’intera faccenda che ha un certo interesse e che potremmo definire “psicologica”. Essa la si può far ruotare attorno a tre termini-concetti che hanno avuto, in ambito filosofico, una più o meno recente fortuna: malafede, performatività, “effetto specchio”. Analizziamoli uno per uno e vediamo come essi possano fare al nostro caso.

Cominciamo dalla malafede, un concetto elaborato dal Sartre esistenzialista ma di cui si appropriò, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, in una chiave tutta politica e antisartriana, lo scrittore italiano Nicola Chiaromonte. Per il sodale di Ignazio Silone, la nostra può essere definita l’epoca della malafede perché in essa non predominano idee genuine e spontaneamente nate dalla riflessione e dalla passione, bensì «credenze mantenute a forza», anche e soprattutto in barba ad ogni realtà effettuale. La malafede in politica comporta un assoluto disprezzo per le idee professate, non solo le altrui ma anche le proprie, delle quali non ci si preoccupa affatto di fondarle su una rigorosa base argomentativa. Inutile dire che ad essere disprezzata è spesso anche la propria patria o il governo legittimamente eletto e governante. Da qui un altro paradosso. Chi si oppone a un regime lo fa solitamente per ripristinare le libertà conculcate nel proprio Paese, il cui bene antepone agli interessi di parte e il cui onore vorrebbe preservare.

Egli si guarda perciò dal lanciare falsi allarmi col solo scopo di lucrarne un profitto. Qui invece si grida al ladro per diffondere un’immagine distorta del proprio Paese all’estero fino ad augurarsi un suo isolamento internazionale. In sostanza, si grida al lupo nella vana speranza che esso scappi davvero, pure se esso è in mani sicure e a prima vista più quotate delle proprie. L’elemento psicologico da sottolineare è che in fondo in fondo si godrebbe di una tale situazione, che non si vuole certo scongiurare ma provocare.

E veniamo così al principio della performatività, che in filosofia indica quel genere di proposizioni che non si propongono di descrivere una realtà ma di spingere all’azione affinché uno stato di cose desiderato si realizzi. Anche in economia, d’altronde, si dice che le forti aspettative siano un elemento generatore di effetti, ad esempio nelle quotazioni di borsa. Si dimentica però di aggiungere, nel nostro caso, che le aspettative per avere un peso devono avere una forza d’urto che uno sparuto, per quanto rumoroso e influente gruppo di pressione di intellettuali, non può certo dire di avere. Ed è qui che casca l’asino: probabilmente i nostri intellettuali non si son resi conto di vivere in una sorta di bolla autoreferenziale: la più parte degli italiani si guarda bene dal considerarli un modello intellettuale né tanto meno morale.

Quanto al principio dello specchio, esso è sofisticato ma ha indubbiamente un significativo valore euristico. Il fatto è che i suddetti professionisti dell’emergenzialismo gridano così forte al lupo perché, non avendo fatto fino in fondo i conti con il lupo che è in loro stessi, tentano in questo modo di esorcizzarlo e rimuoverlo. Il “rimosso”, per dirla in termini psicologici, come effetto di una scarsa consapevolezza o di una “cattiva coscienza”. Spieghiamoci. In Italia il potere culturale è risultato per molti anni egemonizzato da una sola parte politica, che ha praticato proprio quella conventio ad excludendum che oggi essa imputa agli altri. Alcune idee sono state semplicemente espunte dal dibattito culturale che conta, né ai portatori di un pensiero difforme è stato dato il credito necessario per ottenere posti e riconoscimenti pur meritati. Anche se non è mancata la libertà di espressione, ciò che è mancato è stato senza dubbio il pluralismo culturale. È cambiato qualcosa nell’ultimo periodo? Francamente no: la sinistra culturale continua a farla da padrona un po’ dappertutto, dalla tv di Stato all’editoria fino alle università e agli enti di ricerca. 

Certo, c’è stato qualche tentativo di immettere una qualche dose di pluralismo in alcuni settori, ma molto meno di quanto ce ne sarebbe bisogno per una corretta e proficua dialettica culturale. Immettere un po’ di aria fesca in stanze chiuse e generare una sana concorrenza fra idee diverse farebbe infatti bene a tutti perché renderebbe meno banale e prevedibile il nostro asfittico dibattito culturale. Ciò però significherebbe per molti dividere onori e glorie, non contare più su rendite di posizione, in una parola rinunciare al potere che si è occupato. Di qui l’azione preventiva messa in atto da intellettuali che si spacciano per perseguitati ma solo perché temono di non essere più dei privilegiati.