Assetti e intrecci

Giuseppe Conte dimezzato scala il Pd di Elly Schlein

Francesco Damato

Prima ho letto ieri Mario Sechi, per amicizia e per spirito comunitario, diciamo così, da collaboratore di questo giornale. Poi ho letto sul Fatto Quotidiano quella specie di bollettino della vittoria scritto sulle elezioni sarde da Marco Travaglio. Che dopo avere dato a Giuseppe Conte negli anni d’oro, quando l’avvocato poteva governare cambiando alleati dalla mattina alla sera, del secondo in classifica nella graduatoria dei presidenti del Consiglio nella storia d’Italia, dopo Camillo Benso di Cavour, conte con la minuscola perché vero, lo ha ora scoperto come «il leader più sottovalutato del mondo».

Il più sottovalutato - debbo presumere - almeno sino a ieri, perché ora, con la sua Alessandra Todde, ex sottosegretaria grillina, arrivata al vertice della regione Sardegna, salvo sviste degli scrutatori o altre sorprese, l’ex presidente del Consiglio avrebbe fatto vedere finalmente di che pasta è fatto. Uno che quanti meno voti prende più riesce a contare: verbo peraltro del suo stesso nome. Un fenomeno da circo politico.

Neppure quando il movimento oggi presieduto dall’ex premier aveva più del trenta per cento dei voti e sembrava avere preso il posto che nella cosiddetta prima Repubblica era stato della Dc o del Pci, o di entrambi, i grillini erano riusciti a conquistare una regione. Neppure la più piccola d’Italia.

IL PRECEDENTE
Ora in effetti se la sono aggiudicata, e di quali dimensioni, con l’aiuto di un Pd che peraltro è lo stesso - una volta tato non ha ancora cambiato nome - che nell’estate del non lontanissimo 2009 rifiutò proprio in Sardegna, nella sezione di Arzachena, l’iscrizione a un baldanzoso Beppe Grillo. Che si era messo giocosamente in testa di concorrere alla segreteria abbandonata da Walter Veltroni dopo un incidente elettorale, anch’esso accaduto peraltro nell’isola dei Nuraghi.

Pensate un po’ di quante diaboliche combinazioni è fatta questa storia. A Giuseppe Conte è riuscito in qualche modo ciò in cui fallì Grillo, trattato allora come un comico qualsiasi: la scalata, sia pure indiretta, al Pd: diciamo, un’opa.

Dimezzato nei voti, egli riesce a imporre i suoi candidati, offendendosi solo a sentir parlare di primarie, oggi nelle amministrazioni locali, di ogni livello, e domani chissà dove, magari per la presidenza del Consiglio, ad un partito di cui una buona parte lo insegue per una nuova alleanza. Che al Nazareno vorrebbero da “campo largo” ma che lui vorrebbe invece la meno ampia possibile, evidentemente per poterla meglio controllare, senza tanti rompiscatole fra i piedi.


«L’unica formula vincente contro le destre - ha spiegato o proclamato Travaglio nel suo bollettino della vittoria commentando le elezioni sarde - è un’alleanza fra Cinquestelle, un Pd davvero rinnovato e i rossoverdi: quelli che sostennero il Conte 2 fino in fondo. Astenersi centrini, perditempo e perdivoti da “campo largo” o “riformismo”. Un Pd «davvero rinovato» come quello della giovane segreteria Elly Schlein, che sospira di sollievo alla notizia di qualsiasi uscita dal suo partito in dissenso da lei. E se l’applica sul petto coma una decorazione.

LA POLITICA È MOBILE
Va bene che la politica è imprevedibile. Essa è mobile come la donna del Rigoletto. Va bene che ne abbiamo viste di tutti i colori sia nella prima, sia nella seconda, sia nella terza sia nella quarta Repubblica pur in corso solo su uno dei canali televisivi del compianto, immaginifico Silvio Berlusconi. Va bene che abbiamo assistito ad uno spreco di energie e intelligenze come quelle che personalmente mi sembrarono nel 2014 di Matteo Renzi, riuscito poi a segnarsi i gol da solo nella partita della riforma costituzionale, bocciata dagli elettori referendari nel 2016. Va bene tutto, ripeto. Ma mi chiedo quanto potrà o dovrà durare ancora lo spettacolo del Pd a rimorchio di Conte.

AMALGAMA MAL RIUSCITA
Il Partito democratico è sulla carta, e anche consultando l’anagrafe, la somma dei resti della Dc, particolarmente quella di sinistra, e del Pci. Ma anche quell’“amalgama mal riuscito” annunciato, certificato e quant’altro da Massimo D’Alema. Che sarà pure stato l’unico, vero rottamato di Renzi; sarà pure l’antipatico che si compiace persino di esserlo nei suoi interventi fra smorfie e occhiatacce; che avrà pure dato anche a qualche magistrato l’impressione di avere cambiato mestiere, ma rimane pur sempre- mi perdonino i lettori che non fossero d’accordo- un personaggio storico della sinistra italiana. Questo problema del Pd a sovranità sostanzialmente limitata, costretto a costruire e partecipare alle feste degli altri, mi sembra francamente per se stesso e, più in generale, per la democazia italiana, che vive di alternative possibili e non irreali, di gran lunga superiore a tutti quelli, effettivi o immaginari, del centrodestra al governo, o destra-centro, e di ciascuno dei partiti che lo compongono. Cui, per paradosso, senza neppure turarmi il naso come faceva Indro Montanelli con la Dc, verrebbe voglia di augurare tante sconfitte se queste sono per gli avversari semplici vittorie di Pirro. Che si inseguono d’altronde da quasi 2.300 anni.