Battaglia
Giorgia Meloni contro De Luca: "Fondi Ue per la sagra del caciocavallo"
Altro che sassolini. Tornata dalla Sardegna, contro il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, Giorgia Meloni dalle scarpe si toglie macigni. Tutto nasce da quell’insulto - «lavora tu, str...» - che le aveva rivolto il governatore sotto Palazzo Chigi “assediato” dai sindaci campani in azione contro l’autonomia differenziata. Ieri Meloni - che già aveva punzecchiato De Luca a proposito dell’opposizione del numero uno campano sulla riorganizzazione dei fondi di coesione («ma chi se ne frega») - è passata all’artiglieria. «Se uno guarda l’utilizzo dei Fondi, in Campania ho trovato la festa del fagiolo e della patata, la rassegna della zampogna, la festa del caciocavallo podolico, la sagra dello scazzatiello... Mi chiedo se queste siano le priorità. Spendere i soldi in modo più strategico può dare risultati migliori».
Colpito e affondato. Senza dimenticare il silenzio della segretaria del partito di De Luca, ovvero Elly Schlein, di fronte all’epiteto contro di lei: «Sono rimasta molto colpita dal silenzio della segretaria del Pd sugli insulti e i metodi di De Luca». La presidente del Consiglio ha ricordato la risposta di Schlein alla domanda sulle offese del governatore: «La risposta della segretaria del Pd è stata che aveva già risposto sull’autonomia, una risposta che ho trovato geniale. Gente che ti fa la morale ogni giorno e poi non si assume le sue responsabilità». L’attacco di Meloni va in onda dal salotto di Porta a Porta. Ospite di Bruno Vespa, la premier di fatto replica il “one man show” a tutto campo - destino dell’Ilva compreso: «Non voglio nazionalizzare, penso che ci siano margini per trovare investitori privati» - andato in scena a Cagliari nella manifestazione a sostegno del candidato governatore del centrodestra, Paolo Truzzu.
E come due giorni fa, il piatto forte è la riforma costituzionale che introduce il premierato. A questo proposito, Meloni rivela che è allo studio una modifica per rendere il futuro capo del governo italiano come il presidente degli Stati Uniti. In carica al massimo per due mandati. Una proposta che si innesta nella discussione che negli ultimi giorni ha mandato in fibrillazione la maggioranza: la durata del mandato dei presidenti di Regione. Sull’onda della «coerenza» evocata dal ministro degli Affari regionali, il leghista Roberto Calderoli, Meloni si è detta d’accordo - in conseguenza del «no» del suo partito, Fratelli d’Italia, al terzo mandato per i governatori - a fissare un limite anche alla permanenza del premier a Palazzo Chigi: «Sono abbastanza favorevole, è un ragionamento che stiamo facendo». La «cosa più sensata», aggiunge per non dare alibi all’alleato, è «trovare una regola che vale per tutti». Questo significherebbe, se l’emendamento fosse effettivamente presentato e poi inserito nella riforma, che Meloni potrebbe sedere a Palazzo Chigi al massimo fino al 2035.
Calcoli che adesso la premier non fa. Prima, infatti, c’è da vincere la sfida del referendum confermativo, al quale lei è ormai rassegnata: «La riforma ci arriverà (alle urne, ndr) perché la stanno osteggiando». Ma quel voto, spiega, non sarà «un voto su di me, ma su quello che succede dopo». Il premierato è «un’occasione storica» per l’Italia. In precedenza, sempre ospite di Vespa, ma a Cinque minuti, la premier ha stroncato sul nascere le polemiche sulla spaccatura nella maggioranza sul terzo mandato, derubricata a normale dialettica politica: «Non era inserito nel nostro programma, non è una materia di iniziativa del governo, ma parlamentare. Ci sono state visioni diverse ma in massima serenità ne abbiamo ampiamente discusso. Non è una materia che crea problemi al governo o alla maggioranza. La speranza che la maggioranza crolli è una speranza della nostra opposizione». Del resto il suo governo, rivendica, «è il più stabile in Europa».