Anticomunista
Repubblica, un altro tragico autogol: "Matteotti? Cari compagni, che cosa non sapete"
La provocazione è palese. Eleggere Giacomo Matteotti “uomo dell’anno”, ad un secolo esatto dal suo assassinio, può significare una sola cosa: il fascismo è ancora qui, con il sottinteso corollario che i suoi eredi non pentiti sono al governo. Insomma, la solita “canzone d’organetto” di chi non ha più un’idea da spendere produttivamente nell’agone politico. Ed infatti la copertina dell’ultimo Venerdì di Repubblica, a cui si deve la trovata, finge di interrogarsi dubbiosa: «E nell’Italia meloniana, come verrà celebrato?».
Ovviamente non lo sappiamo, ma una cosa sicuramente possiamo dire sin d’ora: se a celebrarlo saranno gli antifascisti militanti ed ideologici, quello che si ricorderà sarà un Matteotti falso o dimidiato. Il fatto è che ciò che costoro dimenticheranno ancora di dire è che il coraggioso politico, ucciso il 10 giugno del 1924 per aver denunciato i brogli elettorali in un memorabile discorso alla Camera dei deputati, fu un nemico acerrimo dei fascisti ma anche, nella teoria come nella pratica, dei comunisti. E ne fu da costoro ampiamente ripagato, almeno fino a quando le ragioni della politica non suggerirono loro di sorvolare opportunisticamente sulle sue idee e di appropriarsene come martire di un antifascismo ormai diventato a tinta unica.
Matteotti si formò politicamente negli anni Dieci del secolo scorso, eleggendo a proprio maestro Filippo Turati, il padre del riformismo italiano. Come Turati, egli aveva un idea morale e umanitaria del socialismo, interessato all’emancipazione concreta dei lavoratori e degli sfruttati. Una emancipazione non solo economica, ma anche culturale: il problema dell’educazione fu in lui sempre centrale, come dimostra l’idea di aggiungere un libro al tradizionale simbolo del partito (la falce e martello).
Il libero associazionismo e l’azione sindacale costituivano per lui la strada maestra da seguire per raggiungere i risultati sperati, all’interno del rispetto di quelle regole procedurali e parlamentari che i comunisti avrebbero voluto sovvertire con la violenza.
Da qui la necessità di collaborare pragmaticamente con tutti, compresi i partiti “borghesi”, se ciò potesse essere utile a raggiungere sempre più alti compromessi favorevoli alla classe operaia. Contrario ad ogni “dittatura”, aborriva quella del proletariato messa in pratica a Mosca da Lenin.
Credeva nella libertà e pluralità delle idee ed anche nella libertà dei commerci. Difficile oggi a credere, ma questi socialisti erano liberisti e non collettivisti (Luigi Einaudi era stato collaboratore della Critica sociale di Turati).
La visione politica di Matteotti era in sostanza antitetica a quella emersa anche in Italia dopo la rivoluzione sovietica e che avrebbe portato alla scissione dai socialisti di coloro che Matteotti definì sprezzantemente i «seguaci del verbo di Mosca». Presto essa divenne insostenibile anche all’interno del Partito Socialista, tanto che, alla vigilia della marcia su Roma, i riformisti vennero a loro volta espulsi. Con Turati, Treves e Modigliani, Matteotti divenne allora segretario di un nuovo partito che avrebbe avuto vita brevissima (si dissolse in clandestinità nel 1930): il Partito Socialista Unitario.
Matteotti smascherò tutte le contraddizione dei comunisti, a cominciare da quella che, nel mentre proponevano un «blocco di opposizione al fascismo», escludevano che di esso facessero parte anche coloro che volevano solamente «una restaurazione pura e semplice delle libertà statutarie». Il 16 aprile 1924, Matteotti, in una lettera ufficiale alla Direzione del Partito Comunista, scriveva: «Voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza delle minoranze; noi siamo socialisti e per il metodo democratico delle libere maggioranze. Non c’è quindi nulla di comune tra noi e voi. Voi stessi lo dite ogni giorno, anzi ogni giorno ci accusate di tradimento contro il proletariato». In effetti, Togliatti aveva accomunato poco prima Matteotti, Mussolini e Sturzo sotto la definizione di «socialtraditori». E Gramsci, dopo il barbaro assassinio, lo avrebbe commemorato quasi come uno che, «pellegrino del nulla», quella morte se la era in fondo cercata. Dati tutti questi elementi, preventivamente verrebbe voglia di dire alla sinistra illiberale odierna: «Giù le mani da Matteotti! La sua vita e la sua morte non vi appartiene!».