partigiani della pace

Israele, l'ipocrisia del pacifismo: il vero valore è quello della libertà

Corrado Ocone

A chi non piacerebbe vivere in un mondo di pace e poter sviluppare tutte le proprie potenzialità umane senza nulla temere? A chi, se non a un malvagio, può piacere la guerra, che uccide tanti innocenti in modo barbaro e violento? Certo, c’è pace e pace. L’assoluta pace, a ben vedere, è infatti quella “eterna”, la quale, lungi dal promuoverla, annulla semplicemente la vita. Ma gli apostoli della pace guardano, in verità, a un altro obiettivo, tutto politico. La domanda da porsi è allora se, anche politicamente, la pace sia un valore assoluto, a prescindere.

La teoria e la storia sembrano in verità dirci il contrario, e già solo questo dovrebbe insospettire. Così come insospettisce il fatto che sia sempre la sinistra a mobilitarsi e a manifestare per la pace (almeno di non credere alla propaganda più spudorata che fa degli uomini di destra tutti dei malvagi e “guerrafondai”). Cominciamo dalla storia. Il principale movimento pacifista del secondo dopoguerra è stato senza dubbio quello che maturò in vari Paesi occidentali intorno agli anni Cinquanta, nel pieno della “guerra fredda”. I “partigiani della pace”, come si chiamarono, predicavano il disarmo unilaterale. In Italia si distinsero per l’acerrima opposizione all’entrata del nostro Paese nella Nato.

 

 

Che a promuoverlo fossero socialisti e comunisti non deve meravigliare: quei partiti rispondevano direttamente all’Unione Sovietica, la quale foraggiava anche economicamente il movimento perché aveva interesse a contenere la forza bellica e il peso dell’Occidente. Quel che meraviglia è che al movimento aderirono tante “anime belle”, cioè persone (anche di fede cattolica) che, abbagliate dall’universale messaggio di pace, non si rendevano conto in buona fede di fare gli interessi di una potenza e di un’ideologia assolutamente non pacifiste. Chi invece ben lo sapeva ma era accecato dall’ideologia era quel vasto mondo intellettuale che già allora dettava il tono al dibattito pubblico e il cui minimo comun denominatore è l’antioccidentalismo.

 



Questo mix di opportunismo (e cinismo) politico, ipocrisia e sfruttamento dell’ingenuità di molti lo ritroviamo, come una costante, in tutte le altre ondate pacifiste, che, con la sinistra sempre in piazza in prima fila, si ebbero successivamente in Occidente. Ricordiamo diversi momenti: negli anni Sessanta, soprattutto a ridosso della guerra in Vietnam, quando nelle piazze si inneggiava ai sanguinari vietcong e si gridava “Yankee Go home”; e poi all’inizio degli anni Ottanta, contro lo spiegamento degli euromissili in risposta agli SS-20 di Mosca. I pacifisti li ritroviamo poi in piazza ancora all’inizio del nostro secolo, questa volta contro l’intervento americano in Paesi come l’Iraq o l’Afghanistan. E li ritroviamo infine oggi in difesa della Palestina e contro una possibile reazione di Israele, che fra l’altro non c’è ancora stata. Il consiglio che verrebbe da dare a chi è suggestionato dall’ideologia pacifista è di porsi sempre una domanda: «Pace sì, ma quale pace?». Ovvero: «Cui prodest, a chi giova?».

Oggi, ad esempio, una non risposta di Israele alla barbara aggressione subìta significherebbe lasciarla impunita e autorizzare i terroristi a riprovarci di nuovo. Fino a raggiungere il loro obiettivo finale che è quello, per loro stessa ammissione, di eliminare Israele e mettere in atto una sorta di nuova “soluzione finale” nei confronti del popolo ebraico. Che tipo di pace sarebbe quella degli islamisti non è poi difficile immaginarlo. In sostanza, la pace è sempre un concetto relativo, di relazione: dipende dal contesto. Il vero valore è quello della libertà. Così come esistono forze che si servono della libertà, e cioè del metodo democratico, per eliminare la stessa libertà, così ci sono forze che come Hamas che in certi momenti possono sembrare di tenderti la mano (penso al rilascio di qualche ostaggio) ma è solo un inganno per potertela poi tagliare meglio. Quanti fra quelli che scenderanno oggi in piazza a Roma ne sono consapevoli? Quanti lo sanno, ma fingono di non saperlo? Fare dei distinguo sarebbe un bel gioco di società a margine della manifestazione. Ma forse su queste cose è meglio non giocare troppo.