L'iniziativa

Lecce, se l'ateneo impone le quote rosa anche per i convegni: l'ultima follia

Francesco Specchia

Eppure, c’è qualcosa di terribilmente fascinoso nell’ossessione per le quote rosa di Marinella Soldi, presidente girovaga della Rai nonché pregiato membro della Bbc. Con lo slancio alla Susan Sontag, il sorriso monco di una Monica Cirinnà e il ritratto della Boldrini in tasca, Marinella è riuscita a convincere la Provincia, il Comune e l’Università di Lecce a non apparecchiare mai più convegni, seminari, conferenze di soli uomini. Mai più. Cioè, par di capire: da oggi, nel Salento, grazie al protocollo d’intesa “No Women, No Panel- senza donne non se ne parla” (in onore delle femministissima Barbra Streisand) nessun pubblico dibattito su qualunque materia potrà aver luogo se privo del fondamentale contributo dell’altra metà del cielo. Gli inglesi la chiamano affirmative action, discriminazione positiva in deroga alla democrazia liberale.

Che, in linea di massima, sarebbe anche un impegno apprezzabile, nonché un’idea alata del servizio pubblico. «Sì, sì, per carità, in teoria sì...», mi sospira dubbioso un alto dirigente del Ministero dell’Università «ma, in pratica, qualche difficoltà nell’applicazione c’è. Ci sono materie, in cui le donne sono totalmente deficitarie, riconosciamolo». Tipo? Chiedo io. «Be’, per esempio pensa a un convegno sul sacerdozio cattolico, o a un simposio sulla prostata...». Oddio. Il sacerdozio e la prostata, in effetti, non li avevo considerati. «E pensa a un convegno sui sacerdoti che hanno la prostatite. Pensa, per dire, a un simposio sulla barba..», mi fa. Vabbè.

 

 

 


Non lo dico, però qualche dubbio comincia a assalire anche me. Poi, sempre più teso, il mio interlocutore mi informa sui dettagli draconiani del protocollo ispirato al Memorandum of understanding, roba che la Rai e tutte le istituzioni dovrebbero seguire in un percorso significativo di «parità di generi» comprensivi di «azioni concrete, impegno costante misurazione dei risultati». Ossia un controllo perpetuo per le quote rosa obbligatorie, in ogni relatore, in tutte le attività di comunicazione.

Esportare la libertà è faticoso. Giusto, giustissimo. E qui, allora, ho un’intuizione veramente geniale: mi chiedo perché limitare il suddetto protocollo alle sole donne? Perché, nel nome del rispetto totale delle minoranze, non estendere questi straordinari slanci libertari ad altre categorie ingiustamente bistrattate? Perché non obbligare ad una “quota” non solo rosa , ma applicabile per legge a tutte le minoranze? Chessò: gli ebrei ortodossi, i logopedisti, i nani, i giocatori di curling, i meccanici frigoristi, le ballerine bengalesi, i produttori di salame d’oca, i tifosi del Sassuolo. I sardi. Immaginate: «No sardi, no panel». Pensate alla redazione di Libero dove con l’arrivo di Mario Sechi già tutti hanno scoperto lontane origini di Oristano: se non c’è un numero congruo di sardi, be’, non esce più il giornale. Un maestoso esempio di pluralità, di giustizia, di rispetto del libero traffico delle idee. Di pari opportunità. Ecco sarebbe bello se la Soldi, oltre che delle donne, si preoccupasse pure dei sardi. Ma va già bene così, ha ragione da vendere la presidente. Mentre ha torto chi, come Eva Cantarella, storica e studiosa delle condizione femminile dall’antichità, afferma, tranchant, che le «quote rosa in realtà sono, per paradosso, una minorazione. Siamo così forti che non abbiamo bisogno di tutor e magari pure di maschi...». Ma va là. Non poniamo limiti a questo splendido futuro totalizzante. Nel mentre, potremmo accontentarci del fronte di liberazione delle donne sarde...