Arbitro?

Giorgio Napolitano, l'avversario del Cav che ha trasformato il Colle

Claudio Brigliadori

L'unico comunista italiano ben accolto negli Stati Uniti. Basterebbe questo per riassumere chi e cosa è stato Giorgio Napolitano. La verità però è molto più complessa di un aneddoto o di uno slogan: è fatta di sfumature e contraddizioni. Intellettuale cavallo di razza della sinistra napoletana, riformista poi migliorista, che prima obbedisce agli ordini di scuderia e vota sì ai carri armati di Mosca in marcia su Budapest nel 1956 e poi, 12 anni dopo si ribella all'amico sovietico che voleva fare altrettanto in Cecoslovacchia. Il ministro degli Esteri del Partito comunista italiano, "l'uomo delle istituzioni" di Botteghe oscure che più di ogni altro, pur già esponente della vecchia guardia rossa, ha giovato della caduta del Muro. Tra i pochi "presentabili" tra i compagni, è stato presidente della Camera, poi ministro, infine presidente della Repubblica. E proprio per quanto fatto al Quirinale, forse, Re Giorgio verrà ricordato: nemico di Silvio Berlusconi, gran burattinaio della caduta del Cav nell'autunno del 2010, esempio perfetto di presidente interventista.

 

IL DIVO ROSSO

Altro che arbitro, il primo comunista al Colle ha dato le carte e rovesciato il tavolo, a suo piacimento, ma sempre ben attento agli interessi internazionali. Più attento all'opinione delle cancellerie estere che alle voci provenienti dalle sedi di partito nostrane, è stato forse anche per questo l'uomo della provvidenza a cui anche Forza Italia ha chiesto, in ginocchio, di restare alla guida della Repubblica in un momento drammatico, la primavera del 2013. Un paradosso, come il fatto che tutti i parlamentari riuniti in sessione plenaria per ratificarne la conferma abbiano applaudito a scena aperta l'uomo che, inusitatamente, anziché ringraziarli, li prese a pesci in faccia in aula. Una scena indimenticabile. Il Napolitano-2 dura poco, meno di due anni. Poi le dimissioni, non appena la situazione si stabilizza. Non poteva sapere, allora, prima di cominciare il suo personale, appartato tramonto umano e politico, che quel "bis" avrebbe fatto scuola, imitato anche dal suo successore Mattarella. Con la morte di Napolitano si chiudono Prima e Seconda Repubblica, avendo accompagnato l'Italia e i suoi segreti dal Dopoguerra a oggi. In fondo, ha rappresentato per ex comunisti e progressisti quel che è stato Giulio Andreotti per il mondo democristiano e cattolico. Una inevitabile, talvolta imbarazzante, sempre fondamentale chiave di volta.

 

L'OMBRA DI PAMIRO

Nato il 29 giugno del 1925, come quasi tutti i suoi coetanei non può non essere fascista. E infatti, da universitario alla Federico II, è iscritto al GUF (Gruppi Universitari Fascisti) e scrive di cinema sul settimanale IX maggio. A guerra finita, dopo l'avvicinamento "sottobanco", il giovane Napolitano può entrare ufficialmente nel Pci. Dal 1956 al 1996 siede in Parlamento, con eccezione di una legislatura, e condiziona il rapporto tra comunisti e socialisti. Fin dagli anni di Palmiro Togliatti segretario, infatti, è esponente di spicco della corrente dei "riformisti" per creare, come si diceva in gergo, "la via italiana al socialismo". Utopia bella e buona, anche perché c'è la Storia a mettersi di mezzo. Nel 1956 l'Unione sovietica decide di invadere l'Ungheria per reprimere la rivolta pacifica degli studenti e rimuovere il governo di Imre Nagy: la repressione, approvata dal Pci e da Napolitano, provoca 2.700 morti. Cinquant'anni dopo, nel 2006, lo stesso Napolitano, ormai transitato in pieno atlantismo, riconosce: "Aveva ragione Nenni", il leader socialista che si oppose al putsch militare sovietico.

 

DA BUDAPEST A PRAGA

Forse è questa la più grande macchia dell'allievo di Giorgio Amendola, un laico crociano intrappolato nei meccanismi perversi della Guerra Fredda. Una ammenda, non sufficiente certo, ma significativa arriva nel decennio successivo, quando dopo la morte del "Migliore" Togliatti la scalata porta Napolitano alla direzione nazionale del partito. Nel 1968 Mosca soffoca nel sangue anche la Primavera di Praga e i comunisti italiani si dissociano, per quanto possibile, dalla "casa madre". Ed è proprio lui a scrivere il comunicato ufficiale del partito.

 

TRA ENRICO E BETTINO

Gli anni Settanta e Ottanta sono il terreno su cui Napolitano coltiva le sue future ambizioni istituzionali: è lo "sherpa" dei sempre complicati rapporti con i socialisti italiani ed europei, tratta con Bettino Craxi e quest'ultimo sarà decisivo nel far rientrare gli ex comunisti nella famiglia della socialdemocrazia europea. Di suo, Napolitano ci mette rapporti personali sempre più fitti con i protagonisti della sinistra moderata internazionale, come il tedesco dell'Ovest Willy Brandt. E non mancano gli attriti con il suo grande rivale interno, Enrico Berlinguer. Da un lato il segretario, comunista duro e puro, quello della "questione morale". Dall'altro il "migliorista", criticato perché giudicato dall'ala destra del partito troppo malleabile, spregiudicato, un po' "situazionista". Avrà ragione lui, e ne trarrà i frutti a momento debito.

 

CAMALEONTE

La crisi del comunismo internazionale, più volte adombrata da Napolitano, arriva per lui come una manna tra 1989 e 1991. E infatti è il più lesto ad approfittarne. Mentre Achille Occhetto si mette in spalla il gravoso compito di "chiudere" il Pci e dar vita a quell'ibrido che risponde al nome di Pds (fino alla tragica sconfitta alle politiche del 1994 contro l'outsider Silvio Berlusconi), Napolitano si gode la fama di "statista" maturata negli anni della difficile convivenza con Dc e Psi. Il volto rassicurante del moderatismo rosso si garantisce la nomina alla presidenza della Camera nel 1992, l'anno di Tangentopoli e inizio della fine della Prima repubblica. Anche in questa fase, spicca per tempismo cavalcando l'onda giustizialista e opponendosi alla immunità per i parlamentari. 

 

GRAZIE PRODI

Il 1996 è l'anno in cui iscrive il suo nome nella storia della Repubblica: il centrosinistra vince per la prima volta le elezioni, il democristianone Romano Prodi diventa premier e affida proprio a lui le chiavi del Viminale, facendolo diventare il primo comunista al Ministero degli Interni. L'esecutivo dura quel che dura, travolto dalle bizze dei comunisti residuali, quelli di Bertinotti e di Rifondazione. Con cui Napolitano non ha mai avuto rapporti di particolare stima. Nel 1999 si apre la finestra europea: da ministro a europarlamentare a Strasburgo, quindi presidente della Commissione Affari costituzionali. Fino al 2004 tesse rapporti che si riveleranno preziosissimi con tutti i leader europei, ben oltre i confini del Partito socialista. Le amicizie influenti nel Ppe si riveleranno, da lì a qualche anno, anche un viatico per gestire personalmente la vita politica italiana come nessun altro presidente, nemmeno il picconatore Cossiga, aveva fatto prima di lui. 

 

DALL'EUROPA AL COLLE

Nel 2004 è Ciampi a nominarlo senatore a vita, l'anticamera della gloria quirinalizia che arriva nel 2006. Un colpo di mano del centrosinistra, reduce dalla striminzita vittoria alle politiche. Prodi è di nuovo a Palazzo Chigi è l'occasione è propizia: maggioranza e opposizione non trovano la quadra sui candidati favoriti (Franco Marini, Emma Bonino e Massimo D'Alema proposti dai progressisti, Gianni Letta dal centrosinistra) e alla quarta spunta proprio lui, Napolitano, eletto con 543 voti su 990 votanti. Il primo presidente ex comunista, non proprio con scelta bipartisan. Inizia così il settennato più turbolento nella storia recente della Repubblica italiana. I primi anni coincidono con l'inevitabile crisi di Prodi e poi con il biennio d'oro del berlusconismo, che tra 2008 e 2009 marcia a velocità di crociera mai raggiunte. I sondaggi affidano al Cav un gradimento da record, ma saranno prima i gossip privati poi la crisi della finanza e dell'economia reale a frenarlo. 

 

L'INTERVENTISTA

Napolitano ci mette del suo. Lo scandalo Noemi Letizia, con il divorzio da Veronica Lario, mette in moto una macchina del fango senza precedenti contro il premier, che nella primavera del 2010 rompe con Gianfranco Fini. Secondo i retroscena, è proprio Napolitano a soffiare sul fuoco delle divisioni, convinto che un Berlusconi padrone assoluto della scena sia un danno per il Paese. L'ex capo di AN prova la spallata in aula, ma la sfiducia viene respinta. Non è ancora finita, però. Il Quirinale e il governo entrano in conflitto apertissimo sul tema della giustizia, dal centrodestra si inizia a parlare di un presidente pregiudizialmente contro.

 

LA GUERRA (AL CAV)

Tra fine 2010 e inizio 2011 esplodono le primavere arabe. Francia e Usa vogliono intervenire in Libia, convinti ormai che Gheddafi abbia i giorni contati. L'appoggio ai ribelli è scoperto, Berlusconi nicchia per motivi di amiciza personale con il Rais ma anche intuendo i rischi di una operazione militare alle porte dell'Italia. Napolitano si mette l'elmetto e, di fatto, impone al governo di unirsi alla coalizione dei volenterosi per "liberare" Tripoli. E' un suicidio annunciato che darà la stura alle ondate migratorie del decennio successivo e alla instabilità dell'area, da cui prova a trarre giovamento economico l'Eliseo. Il presidente della Repubblica, però, considera primario non uscire dal quadro delle alleanze internazionali. Berlusconi stava per dimettersi, pur di negare il via libera alla missione, ma non lo fece solo per "un atto di responsabilità da riconoscergli ancora oggi", ricoderà qualche anno dopo Napolitano. Questione di mesi, comunque.

 

LA SPALLATA

Il crac greco e la lettera della Bce nell'estate dello stesso anno, con mezza Europa convinta che l'Italia sia sulla strada del default, fanno il resto: è l'inizio dell'"euro-complotto", ammesso nel suo libro autobiografico dal presidente francese Sarkozy. Napolitano è costantemente in contatto con Parigi, Berlino, Bruxelles, Washington. Tutti premono affinché Berlusconi, giudicato imprevedibile, venga sostituito da una personalità più organica al grande scacchiere internazionale come Mario Monti. Quando Napolitano nomina il professore senatore a vita, è il segnale: Berlusconi, persi per strada i voti di Fini, non può reggere. Il Colle riunisce tutti i leader dell'arco parlamentare e li convince, forse li obbliga a dire sì al Loden. Monti è accolto come il salvatore della Patria, il Colle gli guarda le spalle e lo protegge per consentirgli riforme lacrime e sangue come quella delle pensioni firmata Fornero. Il "golpetto" ai danni del centrodestra ha però avvelenato il clima, la luna di miele forzata dura qualche mese e genera, nell'allora scrollata di spalle, la genesi di un partito contrario al "governissimo", all'esecutivo di "salvezza nazionale", al dentro-tutti: Fratelli d'Italia. A pochi giorni dal Natale 2012 si arriva così a un altro terremoto, con il centrodestra che toglie la fiducia al governo. Tutti al voto, nel febbraio del 2013. Nessuno lo immagina, ancora, ma si sta per chiudere la Seconda repubblica. 


DRAMMA ITALIANO

Dal voto esce un quadro politico stile Vietnam: il Pd di Bersani, a cui Napolitano aveva imposto di proseguire la legislatura nel 2011, riesce nell'impresa di "non vincere", con Berlusconi autore dell'ultimo miracolo, un sostanziale pareggio, e Monti e Fini azzoppati dagli elettori. Il Quirinale, che si immaginava di dover gestire una transizione morbida con il centrosinistra di nuovo al governo, deve invece fare i conti con la bomba Movimento 5 Stelle, che demolisce il sistema maggioritario "dall'interno" e facendo saltare in aria il bipolarismo (molto teorico) a cui l'Italia si era affidata dopo Mani Pulite per garantirsi un minimo di stabilità. Le consultazioni, drammatiche, coincidono con la scadenza della presidenza di Napolitano. In Parlamento le forze in campo non trovano un'intesa sul suo successore, sono i giorni scovolgenti dei 101 "franchi tiratori" che uccellano il favorito Romano Prodi. Contemporaneamente, Pd e 5 stelle trattano per formare un governo e Beppe Grillo si arrocca chiedendo in cambio l'intesa su un presidente "grillino". Non si va avanti, e qui Napolitano ne inventa un'altra indicando i "dieci saggi", provenienti da tutti i partiti, che sulla carta hanno il compito di trovare un terreno comune per formare un esecutivo. Dopo giorni tremendi, emerge una ipotesi fin lì giudicata clamorosa, se non incostituzionale: rieleggere Napolitano. Bersani è entusiasta, Berlusconi pure. La disperazione della classe politica in carica è evidente, e Re Giorgio è costretto a ricevere al Colle la delegazione dei leader, che lo implorano di accettare. Il presidente ha 78 anni, si dice sfinito dall'esperienza. Ma alla fine accetta, ritrovatosi in un cul de sac che lui stesso ha più o meno involontariamente creato "tifando" per Monti qualche mese prima.  

 

SCHIAFFI AGLI ONOREVOLI

Il discorso alla Camera, mentre deputati e senatori lo applaudono con un senso di liberazione, è brutale, quasi violento: il presidente dice di aver accettato il bis esclusivamente per senso di responsabilità istituzionale, "ma sapendo che quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità". E poi via con l'elenco degli errori di ogni singolo partito, con gli onorevoli che battono le mani auto-umiliandosi ogni 30 secondi. Il secondo mandato di Napolitano finisce nel 2015: il tempo di veder nascere e morire il governo di unità nazionale di Letta (Enrico) e battezzare il governo di Matteo Renzi, via via più spostato a sinistra. L'ultima soddisfazione del vecchio comunista, l'ultima illusione del "riformatore" anche lui abbagliato dalla furbizia del "rottamatore". Da quando al Colle si è seduto Mattarella, che come lui ha vissuto in prima fila e anche più drammaticamente la stagione degli Anni di Piombo e del trapasso storico degli anni Novanta, Napolitano si è visto sempre più di rado a Palazzo Madama, consapevole che dopo tanto protagonismo l'unica opzione era sparire gradualmente dalla scena. Facile per chi, al ruolo di primo attore, ha sempre preferito lavorare nell'ombra, da regista.