A tu per tu
Alessandro Campi su FdI: "Per Meloni scelta obbligata", come cambia il partito
Le difficoltà del governo sul fronte dell’immigrazione sono evidenti, soldi in cassa ce ne sono pochi e a Bruxelles non sembrano propensi a concedere all’Italia deroghe sostanziose al patto di stabilità. The Economist, il Financial Times e Politico.eu, testate europee di un certo peso, hanno iniziato ad avere una linea critica nei confronti dell’esecutivo. Tanto basta perché, anche in Italia, si inizi a parlare della fine della luna di miele tra Giorgia Meloni e le cancellerie e le istituzioni internazionali con le quali sinora ha convissuto tutto sommato bene. Insomma, la parabola discendente sarebbe iniziata. Tra chi non la pensa così c’è Alessandro Campi, commissario straordinario dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, ordinario di Scienza Politica a Perugia e autore di una lunghissima bibliografia sulla destra italiana ed europea. «In realtà», dice Campi a Libero, «mi sembra che l’apprezzamento internazionale della Meloni, anche da parte di governi e settori politico-culturali diversi dal suo, sia ancora alto. Il suo attivismo all’estero in questo primo anno è servito a rimuovere molti pregiudizi ideologici sul suo conto e a tessere importanti legami personali, che in politica estera spesso sono decisivi. Chi si aspettava il rapporto molto stretto che ha stabilito, ad esempio, con la von der Leyen?».
E questo può bastare?
«No, l’attivismo diplomatico da solo non basta. Nelle cancellerie si viene giudicati sulla base delle scelte che effettivamente si compiono. Quella sulla guerra russo-ucraina è stata pagante e opportuna, viste le ambiguità in senso filo-russo che avevano caratterizzato il centrodestra nel passato. Ma in fondo lo è stata anche quella in senso europeista, senza per questo rinunciare a sostenere gli interessi nazionali in materia d’immigrazione odi patto di stabilità».
Per questa scelta c’è chi, a destra, accusa la premier di voler portare i Conservatori europei, di cui è la leader, nella futura maggioranza che guiderà il parlamento di Bruxelles anche se in quella maggioranza ci saranno i socialisti.
«È un’accusa che trovo curiosa. Si preferisce forse che l’Italia resti fuori dal futuro governo dell’Unione, con tutto quello che ne conseguirebbe per il nostro interesse nazionale, solo «D Pe per ragioni di coerenza politica?».
È cominciata la campagna elettorale per le Europee, nella quale ogni partito del centrodestra è il concorrente degli alleati. Lega e Forza Italia si smarcano ogni giorno da Fdi, ognuno vuole piantare la propria bandierina sulla manovra. Non rischiano così di fare un regalo agli avversari?
«Gli avversari del centro destra, Pd e M5S, faranno la stessa cosa: ognuno correrà in proprio. Il rischio logoramento esiste sulla carta, bisogna avere l’intelligenza di mantenerlo entro limiti fisiologici. D’altro canto, cosa può aspettarsi Salvini da un continuo distinguo tattico dalla Meloni: di ribaltare i rapporti di forza tra i rispettivi partiti? Evidentemente no. Può al massimo sperare di recuperare due-tre punti percentuali, ma deve farlo per forza a danno di Fratelli d’Italia o del partito berlusconiano?».
Quale alternativa c’è con un sistema elettorale simile, in cui ognuno corre per sé?
«Il vero obiettivo di tutti, considerato il numero altissimo di astensionisti nelle ultime elezioni, non dovrebbe essere quello di rosicchiarsi consensi a vicenda - una prospettiva miope o autolesionistica - quanto di catturare il voto degli italiani che in questi anni hanno smesso di andare alle urne».
Il percorso imboccato da Giorgia Meloni dovrebbe portare Fdi da posizioni sovraniste a posizioni conservatrici tradizionali, analoghe a quelle dei gaullisti francesi o dei tories inglesi.
«È la sfida politico-culturale della destra italiana da almeno un ventennio. Una via senza alternative: indietro, dopo la prima e fondamentale rottura operata da Alleanza nazionale, non si torna. I primi a non apprezzare sarebbero gli elettori: tra stare al governo o all’opposizione (peggio, nel ghetto dove la destra è sopravvissuta per decenni) c’è davvero una bella differenza».
Ma si può fare una cosa del genere a un partito così identitario e ad una classe dirigente così legata alle proprie radici?
«Qui bisogna capirsi ed evitare i trucchi: posizioni di tradizionalismo sociale, culturale o religioso, certamente molto diffuse nella destra attuale, non possono avere nulla a che fare con l’attaccamento, ormai più patetico che nostalgico, all’universo simbolico del radicalismo di destra. Se ti piace Tolkien non può piacerti anche Leon Degrelle. C’è una bella differenza tra Prezzolini ed Evola. Insomma, tra conservatorismo e neo-fascismo non ci può essere alcuna continuità ideale: non a caso, è quello che cercano di sostenere a sinistra».
Come era prevedibile, a destra c’è chi prova a fare concorrenza a Fdi e alla maggioranza. Gianni Alemanno, che punta a varcare la soglia del 4% alle Europee, può fare del male a Meloni e Salvini?
«Distinguiamo tra chi cerca spazio politico a titolo personale non avendolo trovato all’interno di Fratelli d’Italia, che è il problema di Alemanno, tornato improvvisamente in scena sull’onda del “caso Vannacci”, e la creazione di un partito o movimento “a destra della destra” che possa davvero essere competitivo con l’offerta oggi rappresentata da Meloni e Salvini. Io non vedo alcuno spazio. L’estrema destra italiana - la cui forza elettorale effettiva è inversamente proporzionale allo spazio mediatico che ora le viene concesso per ragioni opportunistiche - vale al massimo il 2%. Sempre che riesca ad aggregarsi per una scadenza così impegnativa, dal punto di vista economico ed organizzativo, come le Europee».
Diceva del generale Vannacci: che ruolo potrà avere?
«Ammesso si faccia tentare dalla politica, gli verrà magari offerto un posto dalla Lega per le Europee. Andrà a Bruxelles e scoprirà, come decine d’altri prima di lui, di non contare nulla politicamente».
A palazzo Chigi hanno deciso di puntare sull’elezione diretta del premier, qualcosa di molto simile al “sindaco d’Italia” di cui si parla da anni. Inevitabile che una simile riforma eroda i poteri del presidente della Repubblica. È quello che serve all’Italia?
«Il testo di questa riforma nessuno ancora lo conosce in dettaglio. Bisogna aspettare per esprimere un giudizio ponderato. Certo, il premierato elettivo sarebbe una sorta di unicum costituzionale tra le grandi democrazie e come tale rappresenta un azzardo. In linea generale, un sistema è forte quando tutti gli attori che lo compongono lo sono. Se si rafforzassero i poteri del premier, dandogli per di più un’investitura popolare, bisognerebbe ridare centralità anche al parlamento, non toccare le prerogative del Quirinale, fare una legge elettorale che dia davvero potere di scelta agli elettori sul territorio e trovare il modo di rilanciare il ruolo dei partiti politici, che oggi sono mere macchine di consenso al servizio dei rispettivi leader».
Insomma, si può fare una riforma migliore di quella di cui si parla.
«Escluso il presidenzialismo (quello vero) nella versione americana o francese, avrei lavorato intorno ad un’ipotesi di premierato forte a base parlamentare, dunque senza elezione diretta, e ragionato sulla possibilità di creare una valvola di sfogo plebiscitaria attraverso l’elezione popolare di un capo dello Stato senza funzioni e poteri di governo, ma con un ruolo di rappresentanza simbolica e garanzia, come avviene già in molti Paesi europei. Quello che davvero non mi piace, del progetto di premierato elettivo, è che venga presentato con la formula del Sindaco d’Italia: siccome i cittadini scelgono già chi deve guidare i Comuni e le Regioni, per coerenza istituzionale dovrebbero scegliere anche chi guida lo Stato».
Cos’è che non va in questo ragionamento?
«È un argomento demagogico. C’è una bella differenza tra il livello locale e quello nazionale. Se si sceglie Bandecchi come sindaco di Terni o De Luca come presidente della Campania, per dire di due figure piuttosto eccentriche, il sistema tiene. Ma se mandi uno dei due, con voto diretto, a Palazzo Chigi, il sistema istituzionale sarà pure coerente in ogni sua parte, ma quanto ci mette a implodere?».
«Per fortuna che abbiamo la Schlein», è la battuta più in voga nella maggioranza. La leader del primo partito d’opposizione è davvero più una benedizione che un problema per chi governa?
«È una fortuna che non può durare a lungo. Le opposizioni al momento sono divise, ma quanto ci metteranno a capire che conviene loro unirsi anche solo per convenienza tattica? Anche l’autolesionismo politico della sinistra ha un limite. Quanto alla Schlein, occupa un posto che in un Paese (e in un partito) normale non dovrebbe essere il suo».
Per quale motivo?
«Perché ha scalato il Pd dall’esterno un po’ come Trump ha scalato i repubblicani negli Stati Uniti, a conferma di quanto fragili siano oggi i partiti politici. Ha una visione della politica e della società che sembra riflettere un certo mainstream mediatico-culturale globale alla moda su materie come l’immigrazione, i diritti civili, l’ambientalismo, eccetera. Sui temi del lavoro sembra andare al rimorchio della Cgil. In generale, non esprime una visione di governo che possa far pensare ad un’alternativa realistica. Ciò detto, resta l’insegnamento del caso Meloni: mai sottovalutare gli avversari, anche quando sembrano deboli, confusi o destinati a perdere».