Leader di Azione

Calenda litiga anche con se stesso: ecco l'ultima follia

Pietro Senaldi

Dopo aver litigato con tutti, ha fatto la sola cosa possibile che gli restava: divorziare anche da se stesso. L’incredibile è che è riuscito a farlo senza cambiare idea su nulla. Carlo Calenda è così, sostiene di avere un brutto carattere malgrado l’aspetto pacioso ma ormai è lecito sospettare che sia tutta una finta e che alzi la voce solo per farsi notare, perché altrimenti nessuno se lo filerebbe. È un po’ il Morgan della politica, meno sboccato ma altrettanto vittima di se stesso e della sindrome di chi si sente il migliore ma incompreso e perciò ce l’ha un po’ con tutti ma alla fine dà l’impressione di non nuocere soprattutto a se stesso.

 

 

 

O forse sarà l’effetto negativo di Renzi, l’uomo più divisivo della politica italiana. Il leader di Azione ci si è alleato e nel volgere di pochi mesi si è diviso da lui, pare ora per dividersi anche dalla propria creatura. Già perché, sorpreso dalla stampa con la famiglia in vacanza in Normandia- Calenda non riesce a stare zitto per più di una settimana, neppure in ferie, e questo lo accomuna all’ormai ex sodale fiorentino -, il manager che volle farsi leader ha svelato di lavorare a un nuovo «Partito della Repubblica, fondato sui valori della prima parte della Costituzione e aperto a popolari, riformisti e liberali, ma non ai centrini che saltano da destra a sinistra a seconda delle convenienze». Frecciata all’ex amico Renzi con riferimento alle allusioni che lo vorrebbero eterno candidato al ruolo di ruota di scorta della maggioranza?

Pare di capire che il nostro eroe voglia inaugurare il novello partito senza sciogliere il proprio. Questo lo leva dall’imbarazzo di ripresentarsi a capo di una formazione politica con gli stessi uomini, il medesimo programma e l’identico leader di quella bocciata dal fondatore. Ma comunque qualche perplessità la suscita. Per esempio, se il Partito della Repubblica lo fonda lui, teoricamente dovrebbe esserne il capo...

Chi lo segue, se in tre anni di predicazione è riuscito a raccogliere solo la coppia Carfagna-Gelmini, scaricata da Berlusconi, e Richetti, il Matteo minore in perenne polemica con Renzi per storie di personalismi più che di differenti visioni? E poi, dopo aver di fatto dichiarata fallita la sua esperienza come leader di Azione, da lui inventata, come può riuscire mettendosi a capo di una formazione più variegata? Non è riuscito a duettare con una voce, Renzi, e dovrebbe dirigere un’orchestra?

 

 

 

E ancora, i voti dove stanno, se al loro massimo splendore, quarant’anni fa, i Repubblicani valevano meno dell’alleanza Calenda -Renzi alle Politiche 2022? Questa ultima pensata del Carletto nazionale pare una riedizione dell’Ulivo senza cattolici e senza sinistra, che è pur vero che è quella che poi lo ha affossato, ma è ancora più indiscutibile che sia soprattutto quella che lo ha fatto vincere. C’è un che di fanciullesco nell’ottimismo e nell’irrealismo con cui il fondatore di Azione affronta la propria parabola politica. Ricorda quei bambini che iniziano un gioco convinti di spaccare il mondo ma poi appena si mette male mandano a monte e ricominciano come nulla fosse.

Quando ha lasciato il Pd per tentare l’avventura personale, l’ex ministro dello Sviluppo Economico era riuscito a crearsi la nomea di uno bravo, che ci capisce, al quale puoi affidare il timone certo che la nave non sbatta sugli scogli. Il suo problema era il caratteraccio, la scarsa inclinazione al compromesso e il fatto cha tutti gli elettori di centrodestra siano convinti che alla fine penda a sinistra, mentre quelli di sinistra non lo sentono dei loro. Oggi serpeggia il dubbio che abbia sbagliato a cambiare mestiere e gli converrebbe tornare in azienda; purché come manager e non da amministratore delegato.