Il passaggio chiave
Berlusconi, la lezione da ricordare: il liberalismo contro lo strapotere dello Stato
C’è un passaggio chiave per comprendere la formazione culturale di Silvio Berlusconi e la sua opera politica. È contenuto in “L’Italia che ho in mente” dove egli scrive che «c’è una norma di diritto naturale che sta nel nostro cuore e nella nostra mente e ci dice che se lo Stato ti porta via più di un terzo del frutto del tuo lavoro senti che è un sopruso, se ti porta via il 50 per cento senti che è un furto, se ti porta via il 60 per cento senti che è una rapina».
Nell’avventura politica di Berlusconi fin dagli inizi assume un ruolo centrale il legame tra la concezione liberale dell’individuo e gli indispensabili limiti da imporre al potere dello Stato. «Oggi in Italia», si legge nello stesso testo, «c’è troppo Stato e troppe leggi, troppi divieti e troppa burocrazia». Berlusconi era convinto, da lettore attento di Friedrich A. Von Hayek, che «il liberale non può che amare il merito, perché con esso vengono premiati i migliori, mentre odia il privilegio, necessario solo per consentire la promozione degli affiliati».
Egli era anche sicuro che gli unici veri antidoti alla corruzione fossero rappresentati dal mercato e dalla libera concorrenza. Aveva bene assimilato la lezione di Luigi Einaudi, quando l’ex capo dello Stato nelle “Prediche inutili” ammoniva che «se si vive in un sistema in cui tutto deve essere disciplinato e dove tutti debbono ottenere permessi, licenze e autorizzazioni, è evidente che la corruzione è fatale». In un Paese come il nostro dominato storicamente da culture ultra stataliste e da estenuanti pratiche trasformistiche, l’irruzione sulla scena pubblica di una figura con un chiaro alfabeto politico liberale non poteva che suscitare reazioni pesanti e scomposte sia da parte di consolidati “feudi burocratici” (magistratura compresa) che ad opera di una sinistra storicamente ostile a concetti quali merito, mercato, equa fiscalità. Nasce in un contesto siffatto ciò che è stata definita la “guerra dei trent’anni” combattuta senza esclusione di colpi sia sul terreno giudiziario che su quello politico-intellettuale.
La sinistra nelle sue diverse articolazioni organizza in occasione del 25 aprile ’94 a Milano una mobilitazione per contrastare l’avanzata del “nuovo fascismo”, mentre Paolo Flores D’Arcais sulla rivista “Micromega” osserva «che la nascita di Forza Italia avviene sullo sfondo di una trattativa tra pezzi di apparato dello Stato e cupola mafiosa». Eugenio Scalfari su Repubblica commenta il successo ottenuto nel marzo ’94 «dall’uomo delle televisioni» come «un carico fangoso, gonfio di detriti e di frustrazioni, di anarchia e di passiva obbedienza».
Non si risparmia lo storico Pietro Scoppola, il quale in un’intervista concessa a L’Unità afferma che «tornano i vizi degli italiani che hanno reso possibile il fascismo». Mario Pirani non si avvede di scivolare in una tesi chiaramente razzista quando scrive che «nel nostro Paese vi è una cortina di ferro antropologica che divide il popolo di destra dal popolo di sinistra». Si giunse al punto che un noto professore torinese propose di istituire un corso di «riabilitazione etica» per coloro che avevano votato per il centrodestra. Tali reazioni, accompagnate da supponenza e disprezzo personale, possono essere comprese appieno solo constatando che il giacobin-leninismo, fondamento dell’autoritarismo moderno, rappresenta, ieri come oggi, l’architrave della cultura della sinistra italiana tradizionalmente portata a disconoscere, quando viene punita dagli elettori, la volontà dei “liberi cittadini pensanti in un sistema democratico-liberale”. È accaduto per trent’anni con Silvio Berlusconi. Il timore è che non sia finita qui.