Nemici togati
Berlusconi nel mirino dei magistrati: solo dopo l'ingresso in politica...
Questo epitaffio giudiziario di Silvio Berlusconi è stato scritto a Milano Due, dove tutto davvero incominciò - il salto economico, la tv - e dove vissero generazioni poi abbandonate dai figli, i quali, cresciuti, presero ad andarsene salvo tornare ad abitarvi negli ultimi lustri: perché i genitori erano morti ma anche perché si accorsero che in quel lusso verde e demodè, di cui Berlusconi aveva curato ogni dettaglio, si stava proprio bene. Milano Due però resta anche l’inizio e la fine dell’indubbio accanimento giudiziario (consacrato, innegabile, quasi un patrimonio nazionale riconosciuto) che varie procure italiane riservarono in pratica a ogni opera, impresa, iniziativa: a partire, retroattivamente, da Milano Due e dai capitali impiegati per finanziarla, che, secondo spifferi, calunnie, invenzioni, film e indagini (mai assurte a dignità di processo) sarebbero provenuti dal Sud e da Cosa Nostra, o da imprenditori in zona, o secondo altri dalla ‘ndrangheta. Se ne sta ancora riparlando in un’indagine in piedi a Firenze che annovera anche il solito concorso nelle stragi del 1993. Altri procedimenti, di cui è anche complicato far di conto, sono stati archiviati a Palermo e a Caltanissetta negli ultimi 25 anni: ma se il punto fosse questo, cioè il dare i numeri della contabilità giudiziaria di Berlusconi, ci sarebbe solo imbarazzo nel scegliere il criterio con cui calcolarla.
PERSECUZIONE - Lui, Berlusconi, sosteneva di aver subito 136 processi (per 3672 udienze) perché teneva conto di tutti i capi d’imputazione presenti anche all’interno di un singolo processo: e chi lo trovasse un criterio vittimista sappia che è lo stesso adottato dall’ex pm Antonio Di Pietro quando alla fine degli anni Novanta subi «42 processi» (diceva lui) che in realtà furono zero perché furono fermati in una decina di udienze preliminari. Nel caso di Berlusconi, ieri l’Ansa diceva che il numero «supera di gran lunga quota 30», il Fatto Quotidiano ne citava 36 (compresi due in corso, che andranno in estinzione) e il numero più attendibile, chiamandoli correttamente «procedimenti» e non processi (che implicano un rinvio a giudizio), appare 34: 13 tra sentenze di assoluzioni e proscioglimenti, 10 archiviazioni, 8 prescrizioni e 2 amnistiati. Ha avuto una sola, nota condanna definitiva nel 2013: 4 anni per frode fiscale (3 coperti da indulto) per una compravendita di diritti televisivi da presidente del Consiglio.
Decadde da senatore (Legge Severino) e scontò 10 mesi e mezzo di affidamento ai servizi sociali; la sua incandidabilità durò sei anni, e nel 2018 fu riabilitato dal Tribunale di Sorveglianza.
Calcolando dunque che Silvio Berlusconi è morto da vivo e di malattia, oltreché da incensurato perché riabilitato, e poi da senatore della Repubblica e da riferimento della vita politica e governativa, si potrebbe puerilmente dirlo: ha vinto lui.
Calcolare il prezzo di tanta resistenza è però più difficile che conteggiare i processi: ancora nel 2017 Berlusconi diceva che il difendersi gli era costato «770 milioni in avvocati» e nel 2011 l’aveva anche tradotto in lire: «600 miliardi». Ma in termini di consunzione psicofisica, e di vita e tempo perso, siamo all’incalcolabile. Anche una gelida elencazione di 29 annidi azioni mediatico-giudiziarie direbbe poco, e annoierebbe molto: quindi scegliamo di campionare un solo periodo, ossia il primo, quando annunciò la «discesa in campo» sino ai mesi successivi quando vinse le prime elezioni. Basta e avanza.
Si deve tener conto che dal 26 gennaio 1994, giorno in cui Berlusconi registrò il suo famoso videomessaggio del «miracolo italiano», il sostegno suo e delle reti Fininvest all’azione della magistratura non era mai stato in discussione. C’erano stati due micro-episodi di finanziamenti a partiti (al Psdi e alla Dc) che non ebbero seguito: da qui il sospetto, circolato per anni, che ai magistrati non interessasse Berlusconi anche perché viceversa interessava il sostegno delle sue televisioni: i telegiornali che più martellavano sugli arresti erano i suoi, e più di tutti il Tg5 di Enrico Mentana. Poi, dopo l’annuncio del 26 gennaio, cambiò tutto, anche se, proprio quel giorno, un sondaggio del Tg3 dava Forza Italia solo al 6 per cento. L’11 febbraio però arrestarono suo fratello Paolo Berlusconi (poi assolto) che era anche proprietario del Giornale: si era messo a disposizione tre giorni prima dell’arresto, ma una sua presentazione spontanea non interessò. La conduttrice del Tg2 delle 12 fece casino, confuse i nomi: annunciò l’arresto di Silvio. In due note, l’allora Pds disse che «Si vede che le fortune di Berlusconi non sono nate nel libero mercato» e che «l’arresto di Paolo Berlusconi comincia a svelare l’intreccio tra la famiglia Berlusconi e Tangentopoli». Ma Silvio non attaccava: al Maurizio Costanzo Show, ancora la sera del 22 febbraio, disse che avrebbe voluto nella sua squadra Antonio Di Pietro.
PROCURE E VELINE - Il 9 marzo tuttavia ci fu il «quasi» arresto di Marcello Dell’Utri, che fu impedito da un’anticipazione galeotta del Tg5, che fu messo in croce anche se anni dopo, nel 2002, il gip dell’inchiesta dichiarerà che proprio quel giorno si rese conto che «determinate notizie uscivano dagli uffici dei pm». E quando Berlusconi cominciò a lamentarsi, il procuratore Capo Francesco Saverio Borrelli disse pubblicamente: «Questa iperagitazione del Cavalier Berlusconi non so come interpretarla: si può prestare a molte interpretazioni, non tutte nel senso dell’assoluta tranquillità di coscienza da parte di chi si agita». L’editoriale di Repubblica titolò «Peggio di Craxi». E lo stesso quotidiano, il 19 del mese, diede spazio al pentito Salvatore Cancemi circa la notizia (in realtà vecchia, già pubblicata anche in libri) che il mafioso Vittorio Mangano negli anni Settanta era stato fattore nella villa di Arcore. Il verbale di Cancemi però ora era stato trasmesso da Palermo a Milano solo il 18 febbraio precedente, per finire su Repubblica («Berlusconi indagato per mafia») giusto una settimana prima del voto. Leoluca Orlando della Rete disse a proposito che «i voti della mafia andranno a Forza Italia e a Berlusconi».
AZZURRI NEL MIRINO - Il 21 marzo 1994 Augusto Minzolini della Stampa incrociò il pidiessino Luciano Violante, che chiacchierava con altri cronisti, e poi riportò (lui solo) alcune frasi dell’allora presidente dell’Antimafia che associavano Berlusconi e Dell’Utri a un’indagine della Procura di Catania su mafia e armi e stupefacenti. Ai tempi Minzolini era considerato il più bravo retroscenista italiano e non lavorava per la Fininvest: Violante dovrà dimettersi dall’Antimafia, ma il giorno dopo, in un comizio a Palermo, battè forse un record di durezza: Berlusconi «ripete la parola d’ordine del fascismo e del nazismo quando morivano nei lager i comunisti, i socialisti e gli ebrei. E con questa parola d’ordine la mafia uccideva i sindacalisti. È una chiamata alla mafia, quella che Berlusconi ha fatto». E mentre Violante pronunciava quelle parole, un pm di Palmi faceva perquisire dalla Digos la sede romana di Forza Italia per avere l'elenco dei presidenti dei Club e dei candidati alle elezioni: era un’inchiesta sulla massoneria.
Questo mentre a Milano degli agenti di polizia giudiziaria chiedevano gli elenchi dei presidenti di tutti i club.
Il giorno dopo ancora, 24 marzo, lo stesso pm di Palmi disse al Csm che la massoneria «appoggia Forza Italia» e questa sua dichiarazione fu sostenuta da Giovanni Palombarini di Magistratura democratica e da Tina Anselmi, ex presidente della Commissione P2, la quale si chiese inoltre: «In che misura l’ingresso di Berlusconi nella P2 e la sua presenza nel mondo finanziario sono due percorsi paralleli?».
EDITORIALISTI SMENTITI - Mancavano solo tre giorni al voto. Curzio Maltese sulla Stampa: «I toni di Berlusconi sono da tema scolastico da quarta elementare». Giampaolo Pansa sull’Espresso: «Vinceranno i progressisti... Che errore, Sua Emittenza! Potrà capitarle di essere sbranato... Ha presente il suo amichetto Bettino Craxi? Temo che a lei andrà molto peggio». Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera: «Berlusconi si illude di essere il medico: viceversa, proprio lui è la malattia».
Berlusconi in sostanza era un problema superato in partenza. Il quotidiano La Voce, nel giorno delle elezioni, il 27 marzo 1994, riproporrà il vero nodo: «Si gioca sull’accoppiata che vede Prodi a Palazzo Chigi e Ciampi al Quirinale». E nessuno saprà mai se tutto quel bailamme giudiziario, allora e sempre, rubò o regalò voti a Silvio Berlusconi: ma i voti arrivarono lo stesso. La coalizione di Berlusconi superò il 40 per cento. Poi il Cavaliere cadrà, si rialzerà, cadrà ancora e si rialzerà infinite volte. Sarà durissimo a morire, e gli sopravviverà il suo mondo.