Presidente

Berlusconi, gli odiatori? Effetto boomerang: così usò gli insulti a suo favore

Luca D'Alessandro

Non ricordo la data esatta, ma ricordo indistintamente il momento. Era la primavera del 2003, a palazzo Wedekind, sede del Tempo. Il presidente Berlusconi parlava ad un convegno, ed io, da poco nominato capo ufficio stampa di Forza Italia, ascoltavo il suo intervento, insieme con i colleghi dello staff di palazzo Chigi e i giornalisti. Era uno di quei momenti di quiete che precedevano la sua uscita per strada e l’inevitabile assedio che ne sarebbe seguito, fra microfoni, macchine fotografiche, colpi di telecamera in testa, gomitate, gente che spingeva da ogni parte, e noi a fare da cuscinetto fra la ressa di sostenitori e l’anello di protezione della sua scorta. Lo chiamavamo in gergo “il bagno di folla”: per Berlusconi una gioia, un momento appagante, durante il quale toccava con mano l’entusiasmo e l’amore della sua gente, per noi un girone dantesco dal quale ne uscivamo spesso malconci. Ma dentro quella sala, il Presidente non stava parlando d’amore. Parlava di odio. L’odio della sinistra contro di lui, il livore, la rabbia, la cattiveria, tutte condensate in alcune pagine che teneva in mano, dov’erano elencate le offese di cui era quotidianamente oggetto da parte di politici, intellettuali, giornalisti.

In lui non c’era risentimento, sdegno, astio, c’era tristezza. Non riusciva sinceramente a comprendere come il dibattito politico si fosse ridotto all’attacco personale più volgare. Avrebbe accettato la critica, il confronto, anche acceso, ma questo no. Non ascoltavo più i colleghi che parlavano intorno a me. Né quello che Berlusconi disse dopo. Ero idealmente davanti al computer per fare un viaggio nella jungla delle cosiddette “dichiarazioni politiche” compulsate nel corso di quegli anni. Ebbene, più ci provavo e meno riuscivo a ricordare qualcosa di “politico”.
 

IMPRESA TITANICA
Fu in quell’esatto momento che decisi di avventurarmi in un’impresa, le cui dimensioni si possono capire solo affrontandola. Entrai nell’archivio dell’agenzia Ansa e digitai come parola chiave “Berlusconi”, partendo dal 13 maggio 2001. In soli due anni erano stati oltre 100mila i comunicati dove compariva il nome del Presidente, con una media di 2-3mila “lanci” al mese. Molti riguardavano la sua attività di premier, cerimonie alle quali aveva partecipato, dichiarazioni. Altri si occupavano di polemiche politiche, anche di attacchi da parte dell’opposizione, ma nel merito delle questioni che erano sul tavolo in un dato momento. Poi, c’erano gli insulti. Violenti, cattivi, tanti da scriverne un libro, un compendio per rendere l’idea del livello a cui possa arrivare l’attacco, non più politico ma personale. Fallita la via del consenso elettorale, con una maggioranza schiacciante in favore del centrodestra, la sinistra ha imboccato quella della demonizzazione di un uomo non più (o forse mai) visto come avversario, ma come nemico. La via dell’insulto, della calunnia, della denigrazione, che non ha mai avuto sosta o pause fino a ieri. Era in atto una sistematica aggressione della persona di Berlusconi, dei suoi affetti familiari, un attacco infamante alle sue amicizie, alla sua storia personale, al suo modo di vivere. Un dileggio che non risparmiava neanche coloro che il presidente l’hanno scelto, sostenuto e votato: gli elettori.


Aggettivi come «dittatorello», «rozzo», «irresponsabile», «pagliaccio», «volgare», «intollerante», «impudente», «immorale», «antidemocratico», «folle», «incapace», «portasfiga», «vigliacco», «stalinista», «estremista», hanno orientato la dialettica di esponenti che ricoprivano cariche anche molto importanti nei partiti di sinistra. Più m’immergevo nel fango degli insulti, più saggiavo con mano le intenzioni di provocare una reazione non solo nazionale (quella di una parte della magistratura, che ha messo in piedi una persecuzione giudiziaria senza precedenti nella storia Repubblicana), ma anche internazionale. Emblematica fu una dichiarazione dell’ottobre 2001 di Massimo D’Alema, all’epoca presidente dei Democratici di sinistra: «Se avessimo la capacità (di complottare nei confronti di Berlusconi, ndr.), se potessimo mobilitare le cancellerie internazionali e la stampa estera forse lui non sarebbe dov’è. E non sarebbe neanche un male. Se poi la Bbc riferisce giudizi governativi in base ai quali si afferma che il primo ministro italiano si è comportato come un idiota, non è colpa nostra. Poi, secondo me non è neanche vero, perché è peggio». Leggevo, raccoglievo, stampavo, scrivevo questo elenco di offese, lo contestualizzavo, mettevo in ordine alfabetico questi limpidi esempi di correttezza e fair play.
 

CONSIGLI PREZIOSI
Il libro cominciava a prendere forma. Però avevo bisogno del giudizio del Presidente, non volevo che il lavoro andasse sprecato, o che prendesse una direzione sbagliata. In occasione di un appuntamento organizzativo a palazzo Grazioli, mi presentai con i risultati ottenuti fino a quel momento, avvicinai il presidente e gli mostrai il lavoro. Lui abbrancò il fascicolo e mi disse: «Gli do un’occhiata e ti faccio sapere». Sembrava scettico, forse non del tutto convinto. Non so se fu la frase di Antonio Di Pietro: «Berlusconi è come l’Aids, se lo conosci lo eviti». Quella di Oliviero Diliberto (segretario dei comunisti italiani): «Nella storia credo che ci sia un unico precedente al comportamento di Berlusconi: quello dell’imperatore romano Nerone». Quella di Pietro Folena (esponente di Rifondazione comunista): «Le parole di Berlusconi sono degne più di un hooligan ubriaco che di un uomo delle istituzioni». O di Alfonso Pecoraro Scanio (presidente dei Verdi): «Se va avanti così, Berlusconi sarà paragonato al dittatore di Baghdad». Fatto sta che il presidente mi convocò a palazzo Grazioli, mi fece sedere di fronte a lui nel suo studio e mi disse: «Vai avanti, che ne facciamo un libro». Io andai avanti, continuando a raccogliere insulti, che lui si faceva anticipare, per usarli nei comizi e negli interventi pubblici. Quando ebbi terminato, era il marzo del 2005, mi presentai davanti al Presidente e gli dissi: «Il libro è finito, come lo intitoliamo?». Lui mi guardò e sorrise: «Berlusconi ti odio». E aggiunse, politico e imprenditore allo stesso tempo: «Lo compreranno in tanti. Lo compreranno i nostri. Ma lo compreranno pure i miei nemici, pensando che sia un libro contro di me». E così fu.