Il grande tessitore
Giorgia Meloni, intervista al Potere: "Senza rivali. Ma occhio a questi..."
Dopo quasi tre anni di silenzio torna a battere un colpo “Io sono il potere”, e non è mai per caso, tantomeno per volontà di protagonismo, visto che la sua identità è tenuta accuratamente nascosta. “Io sono il potere” è il capo di gabinetto che nel 2020 consegnò le proprie riflessioni sulla macchina burocratica del governo, di tutti i governi, al giornalista della Stampa a pagina 4 Giuseppe Salvaggiulo, che le raccolse e le pubblicò per Feltrinelli. Seguirono due interviste a Libero. Nella prima il grande tessitore, che ha visto alternarsi a Palazzo Chigi Berlusconi, Prodi, Renzi, Conte e altri minori, nel senso di non eletti, presagiva la fine dell’esecutivo giallorosso, salvato solo dallo scoppio della pandemia e paventava l’entrata in campo di Draghi, restio a farlo solo «perché temeva di fare la fine di Monti». La storia gli ha dato ragione. Nella seconda, il capo di gabinetto confessava che i famigerati dpcm dell’avvocato grillino erano appositamente scritti in modo astruso e incomprensibile, per dare libertà al governo di reinterpretarli di continuo, adattarli e cambiarli a piacimento senza darlo a vedere.
Con questa terza apparizione, in occasione dell’uscita dell’edizione tascabile della sua fatica, dal primo giugno in libreria, “Io sono il potere” si addentra nella disamina dello sbarco della destra a Palazzo, tra le accuse di fascismo dell’opposizione e il ritratto di una donna, il premier, che a detta della gola profonda sarebbe più sola in Italia, finanche all’interno della propria maggioranza, che all’estero, dove sta tessendo la propria trama con abilità e chiarezza d’intenti. Dalle parole del capo di gabinetto trapelano curiosità e una certa benevolenza, ma anche due o tre avvertimenti da non sottovalutare. Il vero potere non pare ostile al nuovo corso, ma è forte della sicurezza che, anche a questo giro, non toccherà a lui piegarsi di più, perché i politici vorrebbero e provano, in ogni stagione, a fare a meno della grande burocrazia di Stato, ma non riescono a emanciparsene perché non possono. «Una burocrazia ostile, o semplicemente non collaborativa, è in grado di impedire, confondere, rallentare qualsiasi decisione» recita la quarta di copertina dell’opera prima e, finora, unica, del Potere, in merito alla quale Salvaggiulo rilascerà oggi alle ore 20 un’intervista alla collega Silvia Grassi di Formiche.net, sul canale Instagram “Liberiamo”.
Illustre capo di gabinetto: una donna a Palazzo Chigi e tutti sull’attenti, è una nuova Italia?
«I tempi sono cambiati, anche il potere si è adeguato. Una donna presidente del Senato. Una donna presidente della Corte Costituzionale. Una donna prima presidente della Corte di Cassazione. Una donna a Palazzo Chigi. Resiste solo il Quirinale, che per ora è riuscito a sventare i piani di chi ha provato a farsi eleggere in quanto donna».
Come descriverebbe il metodo Meloni?
«A Palazzo Chigi è giudicato molto “maschile”: grande organizzatrice, vuole accentrare tutto, pretende di tenere ogni cosa sotto controllo, si fida di pochissime persone. Non a caso si fa chiamare “Presidente del Consiglio dei Ministri”, perché il potere è neutro».
Si è detto che il premier sia più avanti della sua squadra: ha avuto modo di verificarlo?
«Lei è sempre più avanti degli altri. E la parola d’ordine di questa stagione è “sentiamo Giorgia”. Poi lei è circondata da tante chiacchiere, e soprattutto da tanti millantatori. Però quando lei parla, tutti gli altri tacciono. Lei dice solo un sì. Questo metodo funziona molto bene sui dossier, meno sulle nomine. Esemplare è il caso della nomina del nuovo comandante della Guardia di Finanza, che non è stata gestita con particolare abilità. Queste cose non si mettono in piazza. E soprattutto non si lasciano i ministri aspettare in anticamera, perché quelli parlano...».
Tutti pagano un prezzo alla prima volta?
«Quella scena ci ha fatto capire che è un governo ancora in rodaggio. Forse manca qualche seconda linea capace, più capace. Perché sono i colonnelli che fanno grandi i generali. E colonnelli non ci si improvvisa. Tanto, per il resto, noi capi di gabinetto restiamo sempre lì a osservare... Immutabili nel tempo e nello spazio. A destra come a sinistra».
C’è stato un cambio di passo: voi tecnici vi trovate meglio con i tecnici, con partiti avvezzi al potere o con chi arriva e ha idee e liturgie nuove?
«Il cambio di passo deve ancora arrivare. Il governo è ancora in pieno rodaggio. Lo ripeto. Ci sono alcune persone che, pur essendo in posizioni chiave, devono ancora imparare come si lavora. Anzi, devono capire che possono cambiare i governi, ma non i metodi. Senza bollino della Ragioneria generale dello Stato, non si fa nulla».
Si respira l’aria di una rivoluzione culturale che il governo vorrebbe imprimere?
«La rivoluzione culturale è una mano di vernice. Alla fine il potere non ha colore. Mi spiego, sono soltanto temi alla moda, come la larghezza delle cravatte o la lunghezza delle gonne».
Analogie con la rivoluzione culturale tentata dal primo governo Conte?
«Corsi e ricorsi storici, alla fine, mala sostanza non cambia. Il potere, la macchina sta sempre lì. Basta leggere i nomi dei capi di gabinetto di questo governo. Con la destra, la sinistra, i tecnici, i populisti...».
L’impressione è che Meloni abbia studiato a lungo Berlusconi, Salvini, Renzi e Grillo per non ripeterne gli errori: ci sta riuscendo?
«Soprattutto, ha studiato Monti e Draghi. La sua ossessione è non precipitare nell’effimero. Vuole durare come Angela Merkel. Il vuoto che ha attorno ha indotto molti a scommettere su di lei. Ma in fondo sa anche che negli ultimi quindici anni la sindrome del potere ha bruciato tutti. In un paio di anni dalle stelle alle stalle. Meloni vorrebbe non ripetere la stessa parabola. Ha un vantaggio, rispetto agli altri, il vuoto attorno».
Se alla Meloni riesce l’alleanza in Europa tra i suoi conservatori e i popolari, stanti le attuali difficoltà di Francia e Germania e l’allentamento dell’asse Berlino-Parigi, l’Italia potrebbe per la prima volta avere un ruolo da protagonista in Europa. Siamo pronti a guidare la Ue?
«La tela della Meloni si sta allargando. In questo, lei sta dimostrando una capacità e un’ampiezza di sguardo superiori ad altri leader, che pure vantavano un più solido pedigree internazionale. Meloni, o Giorgia come la chiamano in tanti, ha capito che la partita si gioca in Europa. Soprattutto perché l’Europa ha i soldi che l’Italia non ha».
La pregiudiziale fascista ormai esiste solo nelle ossessioni di certo mondo progressista e del suo cosiddetto milieu intellettuale e giornalistico o sopravvive in qualche decisone poco ecumenica della premier su nomina, poltrone, eccetera?
«Non è più tempo di fascismo. Come ha detto un capo di gabinetto ai colleghi che gli chiedevano se fosse il caso di lavorare con un governo di questo tipo, “queste sono polemiche da Peppone e Don Camillo”. E ai più raffinati mi piace regalare quel piccolo libretto con la copertina nera a firma di Umberto Eco. Si chiama il fascismo eterno, se non sbaglio, vero?».
Diventare eccessivamente self-confident è un rischio per questo governo o è più pericoloso cedere alla tentazione di consumare vendettine?
«Le vendette più sanguinose non si consumano nei confronti dell’opposizione, o nei confronti di oppositori sedicenti martiri, ma all’interno della maggioranza. Nei ministeri accade ogni giorno. “Grandi riforme” vengono disinvoltamente mercanteggiate con nomine di seconda fascia, pur di mandare in difficoltà gli alleati. La coalizione annaspa. Fdi non sta riuscendo a diventare un partito. Le correnti impazzano, le vendette si sovrappongono. Io guardo. Annoto. Talora sorrido».
Come si spiega la resilienza economica dell’Italia di fronte a una congiuntura mondiale sfavorevole e quanto può durare?
«Il grande problema dell’Italia è economico. I dati macroeconomici sono una bolla. Nei ministeri questo già si percepisce. Ci sono pochi soldi in cassa. Mettere insieme il primo decreto alluvione è stato molto difficile. Eppure non si trattava di cifre astronomiche. Attenzione, perché il governo gialloverde cominciò ad andare in crisi per questo motivo».
I grillini sono crollati da soli o qualcuno li ha fatti cadere?
«Da soli, mi creda».
Cosa le ha lasciato l’esperienza di governo con i grillini?
«Mi ha lasciato la sensazione di un grande vuoto nella politica italiana, che non si riesce a colmare. Se ne parla, nelle cene romane tra capi di gabinetto. Ma dopo aver bruciato almeno tre leader in un decennio, sarà ancora possibile crearne altri?».
Hanno possibilità di tornare al governo?
«Il populismo non aiuta. Speriamo che non arrivi anche il“partito dei tatuaggi”, come scherzando profetizza qualcuno di noi. La verità è che questa politica lascia scoperto un pezzo enorme del paese. Quindi davvero basta una nuova piccola idea, populista, social, per fare un partito che può arrivare in pochissimo al 25 se non al 30%».
Lei ha vissuta da vicino anche la parabola di Renzi; quali meriti, quali errori, quale futuro, quali possibilità di ritorno?
«Nessuna possibilità. Resta il migliore tra quelli in circolazione, ma purtroppo è il ragazzo del film Amici Miei. Perozzi, Mascetti, Sassaroli...».
Riforma dell’Autonomia: i veri ostacoli stanno nel governo, nei gabinetti e negli elettori del Sud?
«Le riforme servono a poco. L’Autonomia è solo una bandiera politica. Devo citare per l’ennesima volta il Gattopardo?».
Perché il potere romano è spaventato dall’autonomia: è perdita di potere?
«Non ci spaventa affatto. Casomai ci lascia indifferenti. Noi stiamo a guardare, perché sappiamo che si tratta di falsi obiettivi. Nessuno del potere centrale è disposto a dare alle Regioni, che già gestiscono quasi 130 miliardi l’anno della sanità con gli effetti che abbiamo visto nel 2020, ulteriori competenze».
Cosa resterà di Forza Italia?
«Tanti di noi hanno conosciuto Berlusconi, hanno lavorato con lui. Chi l’adorava, chi lo temeva, chi lo frenava. Ora prevale il sentimento della tenerezza. Nemmeno il gossip ci appassiona più. Le rivalità, la famiglia, le furibonde liti come quella tra due donne di vertice di Forza Italia, che nel giorno della caduta del governo Draghi arrivarono a tirarsi i capelli, urlandosi i peggiori insulti maschilisti, nella villa che fu di Zeffirelli. Ora è basso impero. Nulla di più».
Diciamocelo: Draghi il ko del Colle se lo è cercato. Perché alla fine tutti preferivano Mattarella, anche voi?
«Perché Mattarella si è dimostrato un giostraio discreto e affidabile, che non ha mai negato a nessuno un giro di giostra, salvo sbattergli la porta in faccia quando pretendeva di mettersi lui ai comandi. Noi capi di gabinetto, invece, sappiamo salire e scendere. E aspettare. Come forse Draghi non ha saputo fare. Mattarella, invece, è un maestro dell’attesa. Lascia sempre la prima mossa agli altri. E li prende in contropiede».
Quanto scommette tra cinque anni su una sfida a tre Meloni-Schlein-Conte?
«Il rivale della Meloni deve ancora uscire. Forse deve ancora nascere. Ma c’è tempo. Mi creda, nell’anticamera del Consiglio dei Ministri non si parla di politica. Piuttosto dei processi sportivi, anche perché metà della giustizia sportiva siede proprio in quella stanza».