Processi alle intenzioni

Lollobrigida e Giorgetti sotto accusa, dov'è lo scandalo a parlare di etnie?

Corrado Ocone

Ormai siamo al processo alle intenzioni. Anche se il termine “etnia”, usato dal ministro Lollobrigida, non ha nessuna connotazione razziale, né etimologicamente né storicamente, il sito di Repubblica ci fa sapere che per gli studiosi «usata così quella parola ha un approccio discriminatorio». “Così”, come? Non è dato capire. O meglio si capisce che per i pochi interpellati, tutti intellettuali di parte, Lollobrigida dice sì etnia ma pensa a razza. Che è un po’ il metodo che usavano certi “tribunali del popolo” stalinisti per incolpare chi era ritenuto “responsabile oggettivo” di un reato, a prescindere. E pazienza che poi lo stesso ministro dell’Agricoltura, intervenendo agli Stati generali della natalità, abbia affermato a chiare lettere che «una razza italiana non esiste».

Dicevamo dell’etimologia: etnòs in greco significa popolo. Il termine sta quindi a indicare un gruppo umano, più o meno coeso, che ha una cultura, una lingua e una identità specifica profilatasi spontaneamente nel corso della storia. Questo significato è arrivato fino a noi, tanto che parliamo tranquillamente di etnologia o di etnografia. Alle due discipline, senza menare scandalo, intitoliamo manuali, dipartimenti accademici, centri studi, programmi di ricerca. Ma allora perché alla sinistra fa male che si parli di una etnia, e cioè di una identità, italiana da tutelare?

Non è difficile capire quale sia la vera posta in gioco, quella che fa irritare i progressisti. Si tratta del rapporto da avere nei confronti di quella ideologia che fa da supporto ai processi spersonalizzanti e omologanti legati alla globalizzazione. Per ideologie universaliste come quelle che un tempo facevano capo al marxismo ed oggi si riconoscono nella cosiddetta cultura woke l’uomo deve sbarazzarsi del peso della storia per aderire a una identità da tutti condivisa perché “giusta” e “razionale”.
Ora, è evidente che un siffatto modo di ragionare (o non ragionare) non tiene conto di due importanti fattori: da una parte, del fatto che la tradizione ereditata non è un fardello ma un serbatoio di senso in cui noi troviamo depositate risposte ai nostri problemi e da cui dobbiamo necessariamente partire per costruire il nuovo; dall’altra, che un mondo ove tutto sia uguale e interscambiabile, ove i mille colori e le mille diversità etnico-culturali siano affogate in un mare magnum indifferenziato, è un universo in cui la libertà non può essere coltivata e il conformismo diventa di fatto il tratto comune dell’umanità.

Difendere l’italianità, tutelarla e promuoverla come si è ripromesso di fare questo governo, non significa pertanto porsi in un atteggiamento di superiorità odi esclusione verso le altre etnie o culture. Significa, più semplicemente, proteggere quel patrimonio culturale che è specificamente italiano e che, qualora fosse perso, renderebbe più vuota e meno libera la nostra vita. E meno ricca la stessa umanità. Il tema del pericolo di una “sostituzione” si pone rigorosamente in questi termini, non certo in quelli biologici del razzismo. Controllare i processi immigratori significa evitare che i nuovi arrivati, non per colpa loro, non riconoscano la nostra cultura. A cui, ovviamente, possono accedere o partecipare qualora ne maturassero liberamente la piena consapevolezza.