Ciao Bobo
Addio Roberto Maroni, il leghista di governo sempre pronto a lottare
Per parlare di chi era Roberto Maroni, e di come era (ed è) amato e di quanto assurdo fosse odiarlo, bisogna accostarsi a lui ad un passo dalla morte. Era perfettamente consapevole lo avrebbe ghermito di lì a poco. Era cristiano, di quelli non tanto praticanti, e se ne stava davanti al "Grande Forse". Un tumore al cervello è un alieno tremendo, ma non impedisce di rivelare chi siamo, la nostra natura gentile e buona, o la cattiveria. Bobo- che voleva fare filosofia all'università e poi il giornalista, e si piegò di malavoglia a studiare legge - conosceva Seneca. C'è una pagina dove spiega che il nostro sguardo sul morire, e mentre siamo a un centimetro da quel gelo, svela l'arcano del nostro nome interiore. «L'atteggiamento che assumiamo di fronte alla morte, la più assidua e angosciante delle paure, decide in ultima istanza del nostro essere o non essere uomini liberi».
I LIBRI CON DEDICA
Il 4 novembre sulla scrivania dell'amico avvocato Domenico Aiello arrivano 12 libri. Sono destinati a quanti lavorano nello studio. Si ricorda di tutti. Sul frontespizio di ciascuno traccia una dedica con caratteri giganteschi e tremanti, tutto maiuscolo come un bambino, senza punteggiatura, lui che era uno dalla penna raffinata e persino pignola sulle virgole. «CIAO DOMENICO TI METTO QUESTA DEDICA CON TANTA AMICIZIA E AFFETTO BOBO». Infilato tra le pagine un foglietto di scuse con l'intestazione della Camera dei deputati: «HO SCRITTO LA DEDICA CON LA MANO SINISTRA». La destra era ormai partita. Hanno pianto tutti dinanzi a questo sacrificio di gentilezza. Nel culmine della battaglia politica era duro, aspro, ma mi colpisce che tutti quelli con cui si era scontrato dentro e fuori della Lega, oggi ricordino il suo sorriso, e confessino il loro dispiacere, usando parole estratte dal ricordo della sua voce così da Lombardia del Nord.
Un esempio? Roberto Calderoli. Nel luglio del 2013 si era espresso nei confronti del ministro Kienge, congolese d'origine, in un modo che Bobo, governatore della Lombardia nonché segretario della Lega, corresse: «Calderoli ha sbagliato, la Lega contrasta le proposte che non condivide ma non si devono mai insultare le persone». Salvini, il suo delfino, non lo contraddisse. Quando però intervenne il presidente Napolitano a stigmatizzare le «parole incivili» del vicepresidente del Senato, Matteo rifilò al capo dello Stato uno stentoreo «Stia zitto». Bobo non obiettò, aveva già scelto chi lo sostituisse. Non voleva troppo potere. Preferiva essere un "barbaro sognante" o un "sognante barbaro", facendo convivere questa duplice natura, sempre però conservando questo strano gemellaggio di polarità. Questo lo aveva reso unico.
Calderoli l'aveva compreso e così, da ministro, reduce vittorioso di una battaglia col cancro, ha scritto un comunicato bellissimo. Come Giancarlo Giorgetti, turbato fino alle lacrime, che ha annunciato di aver accolto nella finanziaria un suo suggerimento. E che dire di quanto ha detto il suo successore al Viminale e alla guida della Lega? Matteo ha ricordato l'amore del defunto per il vento, per la vela, cioè perla libertà. Maroni non aveva previsto che Salvini capovolgesse la sua linea: da "Prima il Nord" a "Prima l'Italia". In pieno governo giallo-verde prese le distanze: «Il Nord non ha più una rappresentanza politica vera e propria. In passato c'era la Lega, adesso c'è qualcosa che le assomiglia» (pag 29 di Rito ambrosiano, Rizzoli). Nell'ultima intervista (14 ottobre, Corriere) chiese a Salvini di farsi da parte. «C'è bisogno di una guida moderata». Ma non era contro Salvini, non era contro nessuno.
IRONIA E SORRISI
Lo conoscevo da una vita, agli inizi degli anni '90, quando fu lo stesso Bossi a invitarmi a parlare con «il Maroni, uno della tua età, che sta nascosto ma verrà dopo di me». Gli telefonai. Mi disse subito che bisognava fondare un quotidiano insieme, che fosse leghista e cattolico, con tutta l'anima della Lombardia. Lo seguii durante la campagna del '94. In un dibattito a Varese lo sentii rivendicare di avere stretto con Berlusconi un'alleanza in chiave antifascista, facendo emergere la sua nativa anima di sinistra convertita dall'Umberto sì ma non troppo. Salvo poi, da ministro dell'Interno per 8 mesi, il primo non dc, schierarsi contro il ribaltone voluto dal Capo (e da Scalfaro), fu l'unico ribelle a non essere espulso, e da ministro del Lavoro mi querelò, facendomi convocare in una caserma. Senza dirmi niente la ritirò. Fu il primo a telefonarmi, tra i politici, dandomi solidarietà e amicizia, quando rischiai di essere travolto da una vicenda giudiziaria. Ri-litigai con lui nel 2008.
Lui disse che con i clandestini «bisogna essere cattivi». Lo spiegò nell'assemblea dei deputati di centrodestra. Gli dissi che questo non c'era nel programma votato dagli elettori. Mi guardò malissimo, si sentiva battuto sull'ironia. Lui in questo era fantastico, per una battuta avrebbe perso volentieri un ministero. Quando lo difesi dal razzismo fisiognomico di Enrico Deaglio che lo definì «La faccia triste del nazismo italiano» si commosse alla sua maniera, con quel sorriso da Charlie Brown con la barba. Lo incontrai l'ultima volta, camminava con passettini in una strada di Roma, prima di lui incontrai il suo sorriso.
Ho avuto il dispiacere di essere il primo ad essere autorizzato a scrivere del suo tumore, quando sbaragliò in un processo che durava da 6 anni gli accusatori. La sua ultima battaglia fu per il garantismo, che gli importava ormai? Ci hanno provato fino all'ultimo i pm. Settimana scorsa c'è stata udienza per l'ultimo processo che ancora gli restava da vincere. Sta troppo male, è in agonia. L'avvocato lo annuncia in aula e chiede il rinvio. La giudice-presidente concorda. Interviene il pubblico ministero. Uso virgolette provvisorie, in attesa del verbale: «Io leggo i giornali. Vedo che tiene rubriche, presenta libri. Non pare stia così male». Mi sa che la battaglia per il rispetto della persona, per la civiltà giuridica, dovrai sostenerla dall'altra parte della morte.