L'ultimo dadaista

Silvio Berlusconi, l'arte della politica come invenzione continua

Luca Beatrice

Silvio Berlusconi è l'ultimo grande artista del XX secolo e dunque non può essere giudicato con il metro delle cose normali, tantomedove in tanti sgomitano per un posto al sole. Appartiene alla linea dell'avanguardia novecentesca, che parte dai Futuristi, esplode nel ready-made duchampiano, prosegue nel dopoguerra con i Situazionisti e giunge fino a noi con Maurizio Cattelan, il più berlusconiano degli artisti italiani. Senza dimenticare, ovviamente, D'Annunzio espunto però dall'eroismo e dal superomismo che in questo caso non ci interessano. 

 

La poetica dell'arte berlusconiana sta nel gesto immediato e asincronico, nel coup de theatre, nella dichiarazione fuori portata mai banale che muove gli esegeti e gli specialisti a interrogarsi su cosa abbia voluto dire veramente. Leggere Berlusconi come mera provocazione o sberleffo sarebbe come limitarsi a interpretare il Dadaismo nella stessa chiave e invece non è così perché l'avanguardia si pone altri obiettivi, sovvertimento di ogni regola, abbattere una sintassi per cercarne un'altra, mandare in crisi il contesto, introdurre nuovi linguaggi performativi al posto della vecchia e stanca arte, della vecchia e stanca politica.

L'arte vera, Silvio Berlusconi lo sa, nasce fuori dall'Accademia e non si impara a lezione. È spirito libero, autodidatta, incrocio di mille mestieri, di vita vissuta, di esperienza, di successi ma anche di frustrazioni, dolori e ferite. Lui è il solo a non aver confuso il sistema (nell'arte c'è il museo, nella politica il palazzo) con la poesia, ciò che scaturisce dall'opera, ne è libera espressione, vola alto, incontrollata. L'avanguardia per come te la insegnano, male, a scuola risulta incomprensibile poiché le si applicano i criteri del pensiero comune: il torto, semmai, è di sbagliare i tempi di uscita, arrivare troppo presto e dopo qualcuno dirà «ma sai che in fondo aveva ragione».

IL GUIZZO OLTRE IL LIMITE
Non usiamo espressioni e immagini a caso. Il re nudo non c'entra, il trickster shaekesperiano neppure. Non facciamoci prendere la mano dall'erasmiano Elogio della follia che, da presidente, Berlusconi ammise come possibile fonte ispiratrice, e neppure la figura del vecchio comandante cui sono saltati i freni inibitori. L'artista mescola progetto a improvvisazione e da tale incrocio nasce la grande opera, superare le regole per non rimanere confinati nel genere, aggiungere il guizzo dell'imprevisto a stupire gli altri e soprattutto se stessi.

 

Il limite, semmai, sta nel dubbio «ci sei o ci fai», questione che gli artisti conoscono bene: l'orinatoio di Marcel Duchamp e l'intonarumori di Luigi Russolo, i 4'33"di silenzio di John Cage e la galleria vuota di Yves Klein, le famose scatolette di Piero Manzoni e il dito medio alzato di Maurizio Cattelan. Direte, che c'entra la politica con l'arte? e invece vanno di pari passo perché entrambe hanno bisogno di periodici smottamenti linguistici, altrimenti si arenano nella noia più assoluta. Silvio Berlusconi ha introdotto quasi trent' anni fa una nuova grammatica "uccidendo" le altre narrazioni politiche alla stregua di un Gruppo 63, forse senza saperlo ispirandosi all'arte che non serve conoscerla da esperti, basta respirarla. 

Imprevedibile come ogni talento puro, non puoi certo aspettarti da lui un quadretto impressionista o la maniera figurativa, al contrario avanguardia pura, paroliberismo, metamorfosi del corpo. Altre letture non ce ne sono. Piuttosto, l'"apres moi le deluge" è il rischio inevitabile, difficile un grande artista abbia pensato a un proprio erede.