Come stanno le cose
Draghi, il testamento con cui seppellisce la sinistra: l'ultima mossa del premier
«No». Mario Draghi ha voglia di parlare. In quella che potrebbe essere la sua ultima conferenza stampa prima del voto il premier dimissionario non si riparmia. Tira sberle a destra e a manca, accetta domande a tempo scaduto, si fa da solo quelle che non arrivano, ride, scherza, spiega. Ma quando gli chiedono se sarebbe disponibile ad un bis il suo "no" schiocca netto e sonoro ancor prima che il giornalista abbia finito di parlare. Uno schiaffone che arriva dritto in faccia a tutti coloro che a sinistra continuano a celebrarne le gesta e atirarlo per la giacca. Ma soprattutto a chi, come Carlo Calenda e Matteo Renzi, ne invoca apertamente il ritorno, illudendo gli elettori che l'ipotesi di un secondo giro non sia affatto esclusa. Inciuci, governissimi, esecutivi di unità nazionale? «No», ripete secco Draghi, senza lasciare spiragli o fraintendimenti, come aveva fatto lo scorso inverno per il Quirinale. Anche perché il governo «è nato per fare, non per restare». E questo non toglie che i due tecnici al suo fianco, Daniele Franco e Roberto Cingolani, di cui si dice «orgoglioso», potrebbero star bene in «qualunque esecutivo».
ACCOZZAGLIA
Messo in chiaro che non si metterà alla guida di un'accozzaglia post-elettorale, l'ex Bce però questa volta è andato un po' più in là del solito, riempiendo di contenuti e argomenti la sua ormai mitologica "agenda". Se qualche tempo fa l'aveva derubricata ad un mix di «credibilità e autorevolezza», lasciando intendere che l'agenda non esiste, perché è lui stesso, ieri invece Draghi ha deciso di snocciolare un po' di punti concreti. Intanto c'è il metodo, che è quello di «rispettare gli impegni», non come ha fatto «una forza politica» (presumibilmente del centrodestra) «venendo meno alla parola data» e rifutandosi di mandare avanti la delega fiscale come era stato concordato. Chi non lo rispetta può dire quello che vuole, «ma non la pensa come noi». Poi ci sono i punti programmatici. «Sostegno all'occupazione, alla crescita, alle famiglie, alle imprese e ai più deboli», ha detto durante la conferenza stampa, «è questa l'agenda sociale del governo che ho presieduto». Ma non è finita, perché se fino ad ora il premier si era giustamente limitato a dire, facendo storcere il naso a chi continua a parlare di pericolo democratico ed Italia a rotoli, che chiunque poteva continuare a far bene e proseguire il suo operato, adesso le indicazioni sono diventate più precise. Una sorta di decalogo draghiano. Sul piano internazionale gli alleati non si scelgono in base alla vicinanza ideologica (traduzione: Orban), ha spiegato, «ma chiedendosi chi sono i partner che possono aiutare a difendere gli interessi degli italiani». Poi serve «trasparenza e coerenza». Non si può dire di essere orgogliosi di come l'Ucraina si è difesa, votare sì all'invio delle armi, e qui arriva la tirata d'orecchi a Giuseppe Conte, e poi sostenere di non essere d'accordo oppure, e tocca a Matteo Salvini, «dire di voler togliere le sanzioni, che funzionano», e dare la sensazione «di parlare di nascosto con Mosca».
DISUGUAGLIANZE
Sul fronte interno bisogna «fare di più sulle disuguaglianze» e creare «un ambiente favorevole alla crescita». Questo si ottiene «continuando a fare le riforme», a partire da quelle previste dal Pnrr. Un piano che si può cambiare solamente sostituendo progetti con altri progetti. «Si può vedere», ammette il premier, avvertendo che bisogna muoversi con «pragmatismo, non con l'ideologia», ma nel Recovery è già stato «previsto tutto». Conclusione: «C'è poco da rivedere». Alla fine, dopo aver smentito il suo presunto flirt con Giorgia Meloni («ho rapporti normali con tutti i leader») e lanciato un altro affondo ai partiti («aspettando i loro sussurri, avremmo fallito»), Draghi si è rivolto direttamente agli italiani. A quella «stragrande maggioranza» di cittadini che, a suo dire, vuole proseguire sulla strada intrapresa dal governo che l'ex Bce ha avuto «l'onore di presiedere». Cosa significhi esattamente, tranne riecheggiare gli appelli della società civile per una sua permanenza a Palazzo Chigi citati durante il dibattito sulla fiducia di luglio, nessuno lo ha capito.