Il premier uscente

Mario Draghi, il tetto agli stipendi? Perché se ne va da populista

Antonio Rapisarda

Una "manina" l'ha tolto, l'artiglio di Draghi lo ha subito rimesso a posto. Tutto in meno di 24 ore. Di cosa parliamo? Del tetto agli stipendi dei supermanager della Pubblica amministrazione. Limite (i famosi 240mila euro) cancellato martedì da un emendamento di Forza Italia al Decreto aiuti bis con il sostegno in commissione di Pd e Italia Viva concepito in partenza per le Forze armate ma che poi, riformulato non si sa di preciso per mano di chi (con un rimpallo infinito di responsabilità fra il Mef, il governo e i gruppi), ha visto allargare la deroga anche ai massimi dirigenti di Palazzo Chigi e dintorni. Gran pasticcio, o presunto tale, che ha scatenato «l'irritazione» a caldo del premier uscente Mario Draghi, fuori di sé per un «emendamento parlamentare inserito in un provvedimento che nulla ha a che vedere con il tema delle retribuzioni». La reazione? Il governo ieri ha presentato un suo contro-emendamento al Dl Aiuti bis per sopprimere proprio l'articolo 41 bis riguardante il "Trattamento economico delle cariche di vertice delle Forze armate, delle Forze di polizia e delle Pa".

 

 

 

CONFERMA AL SENATO

Misura approvata immediatamente nel pomeriggio stesso dalla commissione Bilancio della Camera: per cui oggi si attende la scontata conferma di Montecitorio dunque il ritorno in Senato per il via libera definitivo. Per SuperMario, insomma, par di capire che sarebbe stato fuori discussione terminare il suo mandato con l'onta di una misura "di mercato" interpretata come decisamente distonica. Rispetto a cosa? Alla vulgata pauperista che ha contraddistinto l'introduzione del tetto agli emolumenti pubblici voluta in regime di austerity da Mario Monti nel 2011, poi confermata a aggiornata dall'esecutivo Renzi e sublimata dalla retorica anti-casta dei 5 Stelle. Nona caso lesti, con Giuseppe Conte, a celebrare il dietrofront dell'esecutivo: «Bene la marcia indietro, non avremmo mai permesso che una situazione così drammatica per il Paese, i più alti dirigenti dello Stato potessero beneficiare di stipendi ancora più alti del tetto attuale». Tipica narrazione grillina, certo, ma decisamente mainstream se è vero che ieri l'intero arco parlamentare si è schierato a favore del tetto ai supermanager: inclusi quelli, come i dem e gli stessi azzurri, che avevano votato contro. Emendamenti soppressivi alla deroga sono stati presentati dalla Lega («Una norma del genere è uno schiaffo per lavoratori, pensionati, famiglie e imprese, che devono decidere se pagare le bollette o andare al discount», ha affermato Massimo Bitonci) dai dimaiani di Impegno civico («L'emendamento grida vendetta») mentre i piddini hanno balbettato una giustificazione spiegando, con Andrea Orlando, che si è trattato di una «norma sottovalutata e non voluta da noi». A mettere il sigillo allo "stop" imposto dal premier è arrivato poi l'appoggio della più alta carica dello Stato. Secondo ciò che è filtrato dal Colle, infatti, il presidente Sergio Mattarella avrebbe espresso proprio a Draghi le sue perplessità su una norma «inopportuna»: soprattutto, in un momento in cui gli italiani «stanno faticando per la crisi energetica».

 

 

 

MARIO "GRILLINO"

E così l'ex mr. Bce (capace al suo arrivo di fulminare Beppe Grillo che lo ha incensato con il celebre «è un grillino») chiuderà la sua parabola a Palazzo Chigi come l'ha iniziata: se uno dei suoi primi passi è stato rinunciare all'emolumento di diritto da presidente del Consiglio, l'ultimo atto è contraddistinto da uno stop seppur rovinoso e condito di "giallo" alla revisione del tetto agli stipendi. Status quo che continua a rincorrere più un certo spirito "populista" del tempo che la necessità, a maggior ragione davanti alla sfida del Pnrr, di avere e stimolare i "migliori" a servizio della cosa pubblica. Proprio come è stato Draghi stesso, che ha svolto gran parte della sua carriera non solo in banche d'affari private come Goldman Sachs ma anche ai vertici di enti di diritto pubblico come la Banca d'Italia e Bce dove il tetto non esiste proprio e gli stipendi si aggirano sui 500mila euro. Ed è anche per questo che è potuto crescere fino a diventare, parola di Giancarlo Giorgetti, quel fuoriclasse «come Cristiano Ronaldo».