L'intervista
Giorgia Meloni, Antonio Padellaro: "Può essere l'argine all'avvento dell'uomo forte"
Analista acuto e attento alle sorti del mondo orbitante attorno a Grillo, il giornalista e saggista Antonio Padellaro può aiutarci a ben interpretare la singolar tenzone tra il premier e il suo predecessore consumatasi in questi giorni.
Padellaro, chi ha vinto e chi è uscito più indebolito dallo scontro Draghi-Conte, alla luce della salita di ieri del premier al Colle?
«Ho l'impressione che sia stato lo scontro tra due forti debolezze e tuttora c'è il rischio che la situazione sfugga al controllo di entrambi e si arrivi a una crisi che nessuno dei due vuole. La debolezza di Conte è quella di chi ha subito una scissione di straordinaria gravità. Ma la debolezza è anche di Draghi: di fronte alle analisi di chi diceva che la scissione lo avrebbe rafforzato, lui per primo era consapevole che lo avrebbe indebolito perché avrebbe messo in moto un sentimento di rivalsa nei 5 Stelle. E Draghi sa che a settembre potrebbe arrivare la resa del Conte, cioè la possibilità che M5S esca dal governo. In quel caso la palla passa a lui: se restasse al potere senza l'appoggio dei grillini, passerebbe alla storia come il gestore di un triste governo autunnale. Ma non penso lo farebbe mai: Draghi è una persona seria e non starebbe lì a raccogliere i cocci della maggioranza».
Conte è stato accusato di indecisionismo. Tira a campare per non tirare le cuoia?
«Mi colpisce l'ondata di dileggio nei giornali e nei talk che investe questo signore. È evidente che ha dovuto cambiare ruolo: dal rivestire compiti istituzionali, ha dovuto improvvisarsi leader di un Movimento che non conosceva neppure. Ora è in una difficile situazione, dalla quale non so se uscirà vivo politicamente. Certo, poteva anche rifiutarsi di fare il leader dei 5 Stelle: dopo che Grillo l'anno scorso gli ha dato dell'inadeguato, a mio avviso doveva cogliere l'occasione per darsi alla fuga. Comunque ora fa bene a non rompere col governo: l'elettorato dei 5 Stelle non capirebbe una rottura che non fosse giustificata da motivi di importanza assoluta.
Penso quindi che si troverà un compromesso in autunno, anche perché c'è una rete di protezione che fa capo a Mattarella: il presidente della Repubblica ha lavorato molto per attenuare la frattura Draghi-Conte e ha l'intenzione di portare il governo fino all'ultimo giorno della legislatura. E ancora ieri ha dovuto gettare acqua sul fuoco. Ma fino a quando potrà farlo?».
Conte è vittima del qualunquismo che i 5 Stelle stessi hanno contribuito a creare?
«Sì, lui si trova a dover gestire una storia e delle cadute di stile intollerabili che non lo riguardano. È evidente che i 5 Stelle dovrebbero interrogarsi sul perché erano al 32% e oggi sono all'8. Alcuni di loro hanno dato delle dimostrazioni di arroganza insopportabili: le liste di proscrizione fatte dal blog di Grillo nei confronti dei giornalisti sgraditi, ad esempio, sono una macchia che non si dimentica. E poi scissioni ed espulsioni hanno dato la sensazione agli elettori di un Movimento friabile, che si sfarinava continuamente. Non so se li rivoterei: sei 5 Stelle diventano una forza laburista che si prende carico della parte più debole del Paese, perché no.
Se invece restano in questa confusione per cui non sono né carne né pesce, allora no».
Quanto in questo equilibrismo dei 5 Stelle pesa il "ma-anchismo" di Conte?
«Lui parla spesso in avvocatese, con un linguaggio doroteo. Ma orale chiacchiere stanno a zero, gli tocca sbrogliare le matasse del suo partito, e i giri di parole devono lasciare il campo ad affermazioni più nette. Da Avvocato Azzecarbugli, insomma, deve trasformarsi in Avvocato Sbrogliagarbugli: e il primo garbuglio da sbrogliare è capire cosa vuole fare lui da grande».
Quanto è probabile l'ipotesi di un Draghi di nuovo premier dopo le elezioni?
«È una vulgata che sta girando molto. Visto che i partiti non si sono rinnovati e i risultati elettorali probabilmente non permetteranno la creazione di una maggioranza solida, la carta Draghi potrebbe essere giocata: si dice che, col debito pubblico che grava sul nostro Paese, senza Draghi arriverebbe la Troika. È lo spauracchio per giustificare un altro commissariamento della politica. A questo scenario si sta lavorando ai piani sovranazionali, quelli dei mercati e dei grandi fondi, e forse anche a Bruxelles».
Ma come si potrebbe spiegare un Draghi bis, non legittimato dal voto, agli italiani?
«Sarebbe difficilissimo giustificarlo anche perché la stagione dell'uomo solo al comando è in crisi: si pensi a Johnson in Inghilterra, a Macron ridimensionato dalle ultime elezioni legislative. Ora pure Draghi non sembra più il cavaliere senza macchia e paura dell'inizio. Contro questa prospettiva potrebbe esserci una rivincita del parlamentarismo, della democrazia rappresentativa. E credo che la Meloni potrebbe rappresentare l'emblema di questo riscatto, cioè del concetto "si voti e chi prende più voti governa". La Meloni sarà proprio la punta di lancia di questa rivolta contro l'uomo forte. Non so però quanto Salvini possa accettare la premiership della Meloni, perché sarebbe la notifica della sua sconfitta diventare lo sgabello della leader di Fdi; Berlusconi invece è un uomo pragmatico, potrebbe acconsentire ma in questo momento mi sembra che Forza Italia voglia più incarnare il Centro che accordarsi con la destra-destra».
In caso di un ritorno di Draghi dopo le elezioni, e con l'insofferenza per il carovita, potrebbero esserci rivolte tra i cittadini?
«La migliore garanzia contro il ribellismo è la credibilità delle istituzioni. Se le istituzioni ristabiliscono un corretto rapporto tra consenso e governo, questo pericolo è scongiurato.
Se invece si ha l'impressione che il governo italiano non rappresenti la volontà popolare, ma altri interessi, allora le spinte ribellistiche possono sentirsi legittimate».
Draghi ha sbagliato a credere, come Grillo, di poter fare a meno della politica?
«In una prima fase le cronache ci raccontavano di cdm molto rapidi in cui Draghi proponeva e gli altri accettavano senza discussione; allora lui ha esercitato veramente pieni poteri. Ora la vicenda Conte lo ha messo davanti alla necessità di fare i conti coi partiti. Tra Draghi e Grillo comunque, più che un'analogia, vedo una simpatia: entrambi si sentono maschi alfa. Ho letto che Draghi lo prende in giro chiamandolo Elevato, e l'altro lo chiama Supremo».
La scissione di Di Maio è una mossa suicida?
«Io non l'ho capita. Forse lui pensava con questa mossa di abbattere Conte, ma gli è andata male. Anche dal punto di vista del consenso, una lista Di Maio al massimo giocherà per non retrocedere nella classifica del gradimento. Le scissioni o uccidono colui da cui ti scindi o sono destinate al fallimento. In questo caso non vedo un grande futuro politico per Di Maio».
C'è stato l'incontro Di Maio-Sala, cresce Calenda, Toti lancia «Italia al Centro». Sarà un Grande Centro o un centrino?
«Questa storia del Grande Centro ha dei risvolti comici. È una specie di chimera. Anche un centro puro e semplice al massimo potrebbe costituire un ago della bilancia. Il problema è che in questo centro ci sono troppi galli a cantare, più capi che voti: Di Maio, Renzi, Toti, Sala&Tabacci...».
Il campo largo esiste solo nella testa di Letta?
«Noi siamo i più grandi produttori al mondo di formule politiche: Campi Larghi, Grandi Centri... Ora Letta si trova a mal partito con i 5 Stelle dimezzati, però ha bisogno di alleanze se vuole un'ipotesi concreta di governo. Non potrà fare a meno dei grillini, ma non si riesce a capire quali possano essere gli altri compagni di strada. Ho l'impressione che questo campo largo sia un'utopia, o meglio un camposanto».
Il centrodestra che litiga ha copiato dalla sinistra il tafazzismo?
«Non è masochismo. Ci sono tre personaggi forti, ciascuno dei quali non vuole cedere il passo. Ma, se dovessero rendersi conto di avere la vittoria in mano, difficilmente si sparerebbero sui piedi per ragioni di rivalità. Certo, sarebbe interessante un governo Meloni con Salvini al Viminale. Io penso che la sinistra impazzirebbe di fronte a questa prospettiva».
Capitolo guerra: il ministro Di Maio dovrebbe andare a Mosca a mediare?
«Di Maio a Mosca mi sembra una barzelletta. Putin, quando è andato Macron, lo ha messo a 20 metri di distanza. Se andasse Di Maio, forse lo terrebbe in un'altra stanza. Putin al massimo può accettare un incontro con Biden, e con una certa difficoltà».
Il Covid cresce. Con l'autunno ci aspetta un nuovo regime di mascherine?
«Io non capisco l'imprevidenza del governo: ha dato il liberi tutti mentre Omicron 5 stava sviluppando il massimo della contagiosità. Allora bisognava dire al Paese: guardate, signori, che c'è una forte recrudescenza del Covid. Ci voleva un approccio molto più deciso dal punto di vista delle regole da seguire, non i semolini del tipo "state attenti" degni di un predica in parrocchia».