Inchiesta
Luciana Lamorgese, "un ministro senza autorità". Ora è finita davvero, rivolta ai massimi livelli: terremoto al Viminale
L'inchiesta che coinvolge la moglie di Michele Di Bari, ex capo del Dipartimento dell'Immigrazione del Ministero dell'Interno da quando, due giorni fa, si è frettolosamente dimesso dall'incarico, ha mandato il ministero in ebollizione. Prefetti e funzionari però non ce l'hanno tanto con il loro collega, quanto con la titolare del dicastero, Luciana Lamorgese. La vicenda è italianamente tragicomica: la consorte dell'uomo preposto a gestire l'accoglienza agli extracomunitari e far rispettare la legge, accusata di sfruttarli illegalmente nell'azienda di famiglia, mettendoli al lavoro sottopagati e in nero nei campi che l'uomo delle istituzioni vede sotto le finestre quando si alza la mattina nella sua casa di campagna. Di Bari non è indagato, il che significa che o, malgrado in polizia passi per essere un segugio, la sua signora gliel'ha fatta sotto il naso, oppure che il reato non sussiste, cosa che molti suoi colleghi non escludono.
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In attesa dei tempi della giustizia, spesso biblici, la politica si è avventata con le sue zanne sulla vicenda. Ciascuno ha individuato il proprio colpevole. La sinistra scarica lo sfortunato consorte, sul quale, più che le accuse alla moglie, pesa agli occhi dei progressisti il fatto di essere stato insediato da Salvini e di essere stato il primo, quando era prefetto di Reggio Calabria, a scoperchiare il pentolone del sindaco di Riace, Mimmo Lucano, condannato tra l'altro per truffa, associazione a delinquere, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, concussione. Lega e Fratelli d'Italia mettono invece sul banco degli imputati la ministra Lamorgese, che ha cambiato praticamente tutti gli alti dirigenti tecnici scelti dal suo predecessore, Salvini, tranne proprio Di Bari e pochi altri. D'altronde, da buon funzionario pubblico, Di Bari aveva impiegato un battito di ciglia a scattare sull'attenti e ricollocarsi sulla linea della nuova inquilina del Viminale.
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Il problema però perla ministra non sono gli attacchi del centrodestra, ormai consueti e ai quali la signora può opporre lo scudo protettivo del Quirinale, che la difende anche di fronte alla presidenza del Consiglio, la quale da tempo nutre perplessità sull'idoneità della suddetta all'incarico. Il punto è che dal basso, che poi così basso non è, il mormorio si sta alzando. Nei discorsi dei prefetti la preoccupazione perché la Lamorgese sta mettendo in discussione e facendo perdere credibilità a tutta la categoria è ormai un mantra. E la laconicità della titolare del Viminale ogni volta che si trova al centro della tormenta non aiuta. La prediletta da Mattarella infatti dirige uomini in divisa anche quando sono in borghese, i cui ragionamenti sono improntati a pragmatismo e gerarchia, e quello che prefetti e alti funzionari le rimproverano è di non avere l'autorità per intervenire quando le vicende si fanno spesse, né per difendere chi finisce indebitamente al centro del mirino né per prendere provvedimenti nei confronti di chi sbaglia.
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Avanti così, il ministero procede come una barca sospinta dalle onde, senza una mano ferma al timone e, da qui a due mesi, quando la titolare perderà la protezione del Colle, la situazione non potrà che peggiorare. E' la somma di eventi, più che il singolo scandalo in sé a pesare e, per paradosso, a tenere la Lamorgese inchiodata alla poltrona sono più di ogni altra cosa gli attacchi della Lega e di Fratelli d'Italia. Rimuoverla infatti, vorrebbe dire per Draghi consumare un affronto non solo nei confronti del presidente, del quale ambisce a prendere il posto, e perciò è particolarmente attento ai suoi segnali, ma anche verso la sinistra, che a febbraio potrebbe insediarlo al Colle nel quadro di un accordo generale. È un equilibrio stabile al momento ma destinato a cambiare nel breve periodo. Con sollievo, più che del centrodestra, della maggior parte dei sottoposti della Lamorgese.