Indiscreto a Palazzo
Mario Draghi "stufo delle liti tra ministri e in maggioranza": rumors, ecco cosa può accadere
Se Mario Draghi già ora non ne può più delle frenate e delle richieste dei partiti, che lo hanno costretto a rivedere la manovra approvata dal consiglio dei ministri del 28 ottobre, cosa accadrà da febbraio, nell'anno che precede le elezioni, quando certe pretese regolarmente aumentano? Problema che lo riguarderebbe pure se toccasse a lui trasferirsi al Quirinale, da dove dovrebbe proteggere il suo successore a palazzo Chigi, il cui identikit "naturale" corrisponde a quello dell'attuale ministro dell'Economia, Daniele Franco. Draghi, insomma, è preoccupato e infastidito, e non lo nasconde. Tanto che ieri, durante la "cabina di regia" cui hanno partecipato lo stesso Franco e i ministri capidelegazione dei partiti, ha catechizzato sulla necessità di sottoporre a rigidi controlli preventivi l'uso del "superbonus" che consente di detrarre il 110% delle spese sostenute per migliorare gli edifici.
A tutti (ma soprattutto a Lega e M5S, preoccupati che quei controlli blocchino i lavori), ha impartito la lezione sulla linea da seguire: «Dobbiamo dimostrare che i soldi sono spesi bene», evitando «storture» e «furbizie» che causano aumenti dei prezzi e fatture gonfiate. Come paragone negativo ha scelto nientemeno che i fondi concessi al Biafra alla fine degli anni Settanta: quando si scoprì che quei soldi avevano finanziato la corruzione, crollò la credibilità di tutti gli aiuti per il Terzo mondo. Vogliamo seguire quell'esempio?
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Poco dopo, altro richiamo, stavolta in pubblico. L'occasione era la presentazione del portale con gli scritti politici di Ugo La Malfa. Il premier se l'è presa con il «non-governo», ovvero «l'incapacità di affrontare i problemi, di dare continuità alla modernizzazione del Paese», e ha detto che dello storico segretario repubblicano occorre imitare «un'azione paziente ma decisa, che eviti gli sterili drammi degli scontri ideologici». E non ci sono dubbi che quando dice certe cose allude proprio alla sua maggioranza. La quale, a sua volta, cordialmente lo ricambia.
Come lamenta un ministro "politico", «i provvedimenti ci vengono presentati sul tavolo del consiglio dei ministri già scritti: avessimo più potere d'intervento prima, forse non sarebbe necessario correggerli dopo...». Niente di strano, insomma, se i leader dei partiti più grandi della coalizione (Giuseppe Conte, Matteo Salvini ed Enrico Letta) sono tentati dall'idea di "liberarsi" di Draghi mandandolo al Quirinale, confidando che ciò dia loro maggior controllo sulla spesa pubblica. Lui stesso non rifiuterebbe il trasloco. La debolezza dei partiti, e in particolare del M5S, che Conte non riesce a tenere, sconsiglia però una simile operazione. Il pericolo, spiega chi vorrebbe farla, è che nello scrutinio segreto i parlamentari di M5S e Pd affossino Draghi non solo per paura che la sua elezione provochi la fine anticipata della legislatura, ma pure per punire Conte e Letta. Agli occhi del mondo ne uscirebbe un Draghi azzoppato, anche come premier: un rischio l'Italia che non può correre. Problema che solo un mandato "a tempo" di Sergio Mattarella, forse, potrebbe risolvere. «Non a caso è la soluzione preferita di Draghi», assicura chi segue da vicino la partita. Ma Mattarella resta freddo e nessuno dei leader del centrodestra, ad oggi, è intenzionato a percorrere questa strada.
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In attesa che sciolga la riserva sulle proprie intenzioni, Draghi resta così nel limbo: costretto a prendersela con i partiti che, a sentir lui, bloccano il governo, ma senza mai spezzare la corda, perché sono i loro voti che oggi tengono in piedi l'esecutivo e domani, chissà, potrebbero portarlo al Quirinale. Vale anche per i voti di Salvini, che si è detto «stupito» dalla mancata convocazione della Lega al tavolo in cui si è discussa la riforma del reddito di cittadinanza e ieri ha chiesto a Draghi «se dopo la cabina di regia sul superbonus ci sarà tempo anche per una cabina sui furbetti» che intascano la prebenda grillina. Il rapporto tra i due regge, così come quello del premier con Giorgia Meloni, che ha accusato il governo di «cal- pestare» il parlamento, dove ieri non era ancora giunto il testo della manovra, malgrado Draghi e Franco avessero tempo sino al 20 ottobre.