Lo scacchiere

Matteo Renzi, il piano: nuovo partito centrista per incastrare Mario Draghi, un "agguato" a Salvini e Meloni

Alessandro Giuli

Che partita giocherà Matteo Renzi, in questo lungo scorcio di legislatura con il semestre bianco alle porte e una sfida per il Quirinale ancora tutta da immaginare? Potendo parlare senza rete, l'ex premier direbbe che se gli chiedessero quale cosa lo rende felice e speranzoso avrebbe l'imbarazzo della scelta: «Tre anni fa nasceva il governo Conte-Salvini-Di Maio, oggi abbiamo Mario Draghi. Avevamo Arcuri e oggi il generale Figliuolo e continuiamo a chiedere la commissione di inchiesta sulla gestione della pandemia nella prima fase. Matteo Salvini lo abbiamo mandato via, Conte idem, i grillini sono spaccati, Letta resta nella sagrestia del Nazareno posso ben dire che Italia Viva ha compiuto la sua missione».

Ma da adesso in poi? Renzi guarda e aspetta, senza rimanere inattivo. Sa di essere decisivo per l'elezione del prossimo presidente della Repubblica e le parole d'ordine con i suoi sono chiare: «Per qualche mese stiamo tutti fermi, dopo la scelta del nuovo presidente vedremo come ne usciranno il Pd e Forza Italia, cosa ne sarà dei grillini il quadro politico è in movimento, uno scenario perfetto per una forza giovane ma strategica come la nostra». Ma quale sarebbe lo scenario migliore per Renzi? Ipotizziamo: l'ex banchiere centrale europeo potrebbe scavallare il 2022 e restare al governo fino al termine della legislatura; se nel frattempo il successore di Sergio Mattarella non fosse Mattarella medesimo, con il proposito di dimettersi a fine legislatura per far posto a Draghi, a quel punto il premier delle larghe intese diventerebbe il candidato naturale per succedere a se stesso nel 2023. Chissà. «Trust the plan», motteggiano in queste ore i renziani, ripetendo lo slogan scritto su alcuni manifesti ironici appena apparsi a Roma e che ritraggono il fondatore di Italia Viva con occhiali da sole su un fondale un po' tecno e un po' Matrix. L'iniziativa origina da un gruppo di simpatizzanti "liberal" che si definiscono «trustatori» e «neo-bischeristi», ma nella sostanza ascrivono a Renzi «l'arrivo di Draghi al governo, la spaccatura nei 5 Stelle, l'addio di Alessandro Di Battista, il nuovo europeismo di Salvini, le dimissioni di Conte, Domenico Arcuri, Nicola Zingaretti e in ultimo la vittoria dei Maneskin all'Eurovision».

 

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Fuori dalla dimensione prevalente del cazzeggio, un piano prenderà corpo. Si sa che Draghi, da talismano antispread e medicina di prima necessità per un'Italia da vaccinare in massa e proteggere con la riscrittura del Recovery Plan, rischia di trasformarsi via via nella cura nazionale di lungo periodo. Ce ne accorgeremo presto, quando le tensioni sociali derivanti dallo sblocco dei licenziamenti metteranno Draghi stesso di fronte alla necessità d'un enorme lavoro di riforme sociali dalla lunga gittata e controfirmate da Bruxelles. Non deve stupire, dunque, che la cabina di regia tecno-politica incaricata di portare al traguardo il Recovery abbia come data limite il 2026 e non la scadenza della legislatura in corso. L'attuale maggioranza allargata, in questa prospettiva, sarebbe destinata a durare sia pure sotto formule nuove ancora da decrittare.

TRIANGOLAZIONI - Intanto c'è da costruire, ma ancora non si può definirlo così, il partito di Draghi: un nucleo confederato di forze eurocentriste che racchiuda assieme a Renzi il mondo post berlusconiano, i nuovi cespugli di Luigi Brugnaro e Giovanni Toti, Azione di Carlo Calenda, pezzi di Cinque stelle perfino (tendenza Di Maio); e che sia alla base di uno schema parlamentare in cui la dialettica destra/sinistra viene stabilmente sostituita da quella europeisti/sovranisti. Il sopraggiunto cupio dissolvi dei populisti grillini e le intermittenti conversioni salviniane costituirebbero la prova che il vento dirige in tale direzione. Il disegno ultimo potrebbe essere quello di contenere l'arrembante Giorgia Meloni e i suoi Fratelli d'Italia nel vasto angolo di un polo escluso assieme ai dirimpettai più estremisti come Alessandro Di Battista e Nicola Fratoianni («questi ultimi li mandiamo all'Isola dei famosi», è la battuta che circola fra i renziani), lasciare Salvini a metà del guado mantenendolo a dieta di consensi e con il rischio di finire schiacciato da una "maggioranza Ursula" (tutti al governo, tranne sovranisti e conservatori) e al tempo stesso relegare il Partito democratico nel solito ruolo di portatore d'acqua e inseguitore, guidato com' è da Enrico Letta in una modalità "guevarista" che consente di rosicchiargli voti moderati.

 

 

Detto ciò, Renzi è Renzi: uomo di business e comunicazione, relazioni internazionali e conferenze spericolate, ma non uscirà dall'agone politico finché continuerà a pensarsi come il miglior condensatore e catalizzatore d'un polo riformista. È peraltro capace di tutto, anche di guastarsi una festa già apparecchiata; raramente, oltretutto, i sogni coincidono alla perfezione con le coordinate della realtà. Restano tuttavia in primo piano alcuni fatti: il bullo di Rignano è all'origine degli equilibri su cui poggia il governo Draghi, ha una base parlamentare fondamentale per ogni manovra, continua a triangolare con Salvini per bastonare i pentastellati del Conte dimezzato e fare dispetti a Giorgia, ha ottimi rapporti con Berlusconi ma anche con Brugnaro e non vede l'ora che Forza Italia si scinda tra i salviniani del cerchio magico e gli anti sovranisti destinati a riempire l'aggregatore moderato che Italia Viva ambisce a creare. Quanto al convitato di pietra dei nostri retropensieri, l'inquilino di Palazzo Chigi, c'è chi insinua che pur di non finire nel tritacarne della corsa per il Colle potrebbe davvero scommettere sulla prospettiva di un bis alla presidenza del Consiglio. Urne permettendo.

 

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