Il primo passo
Pierferdinando Casini dietro la scelta di Conte di salire al Quirinale: "Cosa devi fare adesso"
Mentre la clessidra si svuota (mancano 48 ore al D Day), senza che responsabili si palesino e, anzi, con quelli recuperati fin qui che si sfilano (Sandra Lonardo, Riccardo Nencini, Pier Ferdinando Casini hanno già detto che non voteranno la relazione sulla giustizia), alcune piccole fessure cominciano a vedersi. Perché se una parte del Pd e del M5S continuano a dire che l'alternativa è il voto anticipato, in realtà tutti si muovono per evitarlo. Con slittamenti semantici o argomentativi. Per esempio se il mantra, fino a sabato, era: «scivoliamo verso le urne», ora è: «se ci sono le urne, è a rischio il Recovery». Come dire: non possiamo votare. E così quelli che, finora, erano i due dogmi nell'asse Pd-M5S-Palazzo Chigi - «Conte non si dimette», «mai più con Renzi» - ieri hanno cominciato a essere meno rigidi. Il primo segnale che la trincea del Pd potrebbe cambiare arriva, di buon mattino, dal ministro Francesco Boccia, in assoluto tra i meno vicini a Renzi. «Noi», ha detto a SkyTg24, «ci siamo sempre stati, Renzi lo sa. Possiamo confrontarci in qualsiasi momento, il problema è non farlo con un ricatto, questo non è accettabile». E su Facebook, ribadendo il concetto, ha spiegato che «in questa crisi irresponsabile aperta da IV non c'è alternativa a Conte premier». Detto questo, «è giusto confrontarsi in maniera trasparente e senza ricatti». Poco dopo ecco cosa dice il senatore Franco Mirabelli, molto vicino a Dario Franceschini: «Se si vuole un confronto vero bisogna creare le condizioni. Per ora mi sembra sia prima di tutto IV a dare giudizi che precludono il confronto». Parole tutt' altro che di chiusura. Proseguendo il ragionamento, la conseguenza è: se Italia Viva dovesse creare le condizioni di un confronto vero, noi siamo disponibili. Che è molto lontano dal «mai più con Renzi», di sole 48 ore fa.
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LE CONDIZIONI
In sostanza, quello che Boccia e Mirabelli lasciano intendere è questo: se Renzi toglie il veto su Conte, se si impegna a sostenere questo premier una volta che si dimette, senza impallinarlo durante le consultazioni, si può anche arrivare a un Conte ter. Che poi è la strada che, in questo momento, tutti stanno suggerendo al premier. Lo ha fatto Bruno Tabacci, che in questi giorni ha lavorato instancabilmente per creare i gruppi parlamentari che fungessero da quarta gamba dell'alleanza. Ieri, però, ha dovuto pubblicamente gettare la spugna: «Ho fatto quello che potevo», ha spiegato a Repubblica, «ma i numeri restano. A Conte ho suggerito un gesto di chiarezza: dimettersi per formare un nuovo governo. E se non ci riesce, si va al voto. Per vincere». E glielo ha detto un grande esperto di politica, come Casini: «Conte dovrebbe andare al Quirinale e dimettersi», ha spiegato a Mezz' ora in più. Dopo di che, potrebbe «aprire la strada per essere re-incaricato. Recuperare il dialogo con Renzi e mettere nel dimenticatoio i personalismi». Se il Pd non si spinge a tanto - non gli chiede pubblicamente di dimettersi - tra i dem cresce, invece, la fronda di chi spinge per riaprire il dialogo con Renzi. «Non è l'ora di vendette e di rancori, di personalismi», riflette Graziano Delrio, che pure non nasconde come ricomporre la frattura con Italia Viva sia difficile. Ma è soprattutto dal Senato che cresce la richiesta di un dialogo con l'ex leader dem. «Renzi ha commesso un errore gravissimo, ma noi abbiamo bisogno di un governo all'altezza della situazione, non possiamo avere un governo raccogliticcio», dice Francesco Verducci. «Basta coi veti», twitta Dario Stefano. La maggioranza riparta «risolvendo i problemi ed i conflitti in atto», dichiara Stefano Collina. Gianni Pitella cita Nenni: «La politica si fa con i sentimenti, non con i risentimenti». E per finire, il capogruppo, Andrea Marcucci, ricordando che c'è da scrivere il Recovery Plan, lancia un appello: «Fermiamo la guerra e ragioniamo intorno ad un tavolo».
I CINQUE STELLE
E persino dal M5S, che finora ha sempre escluso nel modo più assoluto di rimettersi al tavolo con Renzi, cominciano a emergere posizioni diverse. Come quella di Emilio Carelli, secondo cui è «logico e saggio sedersi intorno a un tavolo con Italia viva». Non è facile. Gli eserciti sono ancora schierati, i fucili puntati, le ferite aperte. Conte non si fida di Renzi. E ancora ieri escludeva nel modo più assoluto di dimettersi. Non è convinto nemmeno Nicola Zingaretti che, spalleggiato dal centrodestra, cominciava a pregustare l'ipotesi di un voto anticipato, scenario che gli permetterebbe di liberarsi una buona volta di Renzi e di avere gruppi parlamentari vicini a lui. Ma, a dispetto di quanto si dice, la resistenza del Parlamento alle urne è tanta. Anche perché al prossimo giro i seggi saranno dimezzati. Basti un numero, rilanciato ieri dall'Espresso: su 338 parlamentari del M5S ne torneranno in Parlamento, secondo le ultime proiezioni, non più di 90. Logico che la spinta per una soluzione supera le ostilità.