Gode solo il Capitano
Gregoretti, Senaldi: "Così Salvini e la Bongiorno hanno incastrato Conte, Pd e M5s". Sconfitta legale, condanna politica
Esiste un giudice a Catania; anzi, un pm. Il processo che doveva mettere in croce Matteo Salvini e segnare l'inizio del suo tramonto si sta rivelando un boomerang per la maggioranza parlamentare che ha votato compatta per mandarlo alla sbarra. In udienza infatti il sostituto procuratore, Andrea Bonomo, ha chiesto l'archiviazione per l'accusa all'ex ministro dell'Interno di sequestro di persona, confermando la lettura dei fatti data fin da subito dai magistrati inquirenti siciliani: il reato non esiste e il leader leghista agì nell'esercizio delle proprie funzioni.
È la conferma che la scelta del giudice per le indagini preliminari di rinviarlo a giudizio aveva poco a che fare con il diritto, come anche quella dei senatori del Pd, di M5S, di Leu e di Italia Viva, che in aula votarono per il processo. Va riconosciuto pertanto onore al merito della procura catanese, che si è rifiutata ancora una volta di farsi strumento di un attacco politico al leader dell'opposizione. Malgrado la richiesta d'archiviazione però il processo non finisce qui. Il giudice dell'udienza preliminare, Nunzio Sarpietro, prima di prendere una decisione definitiva ha infatti fissato due date, il 20 novembre e il 4 dicembre, per ascoltare Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Danilo Toninelli, ed Elisabetta Trenta, ai tempi rispettivamente premier, vicepremier e ministri dei Trasporti e della Difesa, più l'attuale responsabile del Viminale, Luciana Lamorgese. Non è una mossa anti-Salvini ma è semplicemente quanto richiesto dalla difesa del leader leghista per chiarire come la decisione di non far sbarcare i 131 profughi a bordo della Gregoretti era nota e avallata dall'intero governo gialloverde.
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Di Maio e i grillini, dopo averlo salvato sul caso Diciotti, quando ancora la Lega era in maggioranza, hanno mandato alla sbarra l'ex ministro fingendo di essere estranei alla sua politica migratoria. Il premier Conte, di cui abbiamo pubblicato pochi giorni fa la foto di quando sventolava sorridente a fianco del capitano del Carroccio il decreto sicurezza appena approvato, ha fatto lo gnorri per mesi, godendo in silenzio per il rinvio a giudizio. Ma ieri il gup ha accolto la tesi dell'avvocato Giulia Bongiorno e ha tirato in ballo tutti: il caso Gregoretti è stato un affare di Stato e la sua gestione corrispondeva a una linea politica che l'allora ministro dell'Interno ha impresso ma l'intero governo ha confermato. È una decisione che squarcia il velo di ambiguità e ipocrisia con cui i grillini e il premier hanno sempre trattato il dossier immigrazione e l'ex alleato. Ancora più significativa è la convocazione della ministra Lamorgese, che la difesa leghista ha chiamato per dimostrare che anche sotto il suo dicastero si sono avuti casi di profughi a cui per giorni è stato impedito lo sbarco. A questo punto il processo può avere solo due sbocchi. O va avanti, e si trasforma in un giudizio universale con alla sbarra tutto il governo precedente, ma anche l'attuale, visto che in termini di accoglienza la musica è cambiata solo a parole ma non nei fatti. Sarebbe una tragicomica sfilata di maschere di Carnevale in cui la classe politica darebbe ampio sfoggio delle proprie inadeguatezze, contraddizioni e pochezze morali. Oppure, più probabilmente, per non mettere alla sbarra tutti, si finirà per assolvere Salvini, che è il solo alla fine che avrebbe da guadagnare dal protrarsi di un processo che diventerebbe l'emblema della politicizzazione della magistratura e della vigliaccheria della politica.
Si registra infatti, tra le altre cose, che il giorno del giudizio ha avuto la capacità di compattare il centrodestra come neppure la campagna elettorale ha saputo fare. La foto di ieri che resterà alla storia infatti è quella di Salvini, Meloni e Tajani che prendono il caffè insieme su una terrazza in riva al mare prima dell'udienza. Si segnalano, come note a margine, la lastra di marmo caduta addosso in tribunale all'avvocato Bongiorno e lo striscione democratico con su scritto «Salvini merda» che la sinistra sventolava fuori dal tribunale catanese. La prima è il simbolo dello stato della nostra giustizia che cade a pezzi. Lascia ogni speranza chi si addentra nei suoi corridoi. La seconda è l'immagine della contraddizione della sinistra, che accusa Salvini di seminare odio e poi ne fa bersaglio di insulti. Come a dire, ammazziamolo così dal giorno dopo possiamo essere tutti più buoni. Lo stesso film che si è visto con Berlusconi. Stavolta però, forse, i giudici hanno imparato la lezione e il finale sarà diverso.