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Giorgia Meloni dopo il referendum: "Camere illegittime, al voto subito. Salvini? Perché non faccio la corsa su di lui"

Lorenzo Mottola

Onorevole Meloni, in pochi lo scrivono ma per Fdi queste sono elezioni storiche, mai visti risultati simili.
«Siamo molto soddisfatti. Non torno sul dato delle quindici regioni governate dal centrodestra contro le 5 della sinistra. Ricordo solo che Fratelli d'Italia ha scalzato Cinquestelle ed è diventato il terzo partito italiano. Due dei tre partiti più importanti del Paese oggi si trovano all'opposizione, mentre la maggioranza continua a perdere consenso. Eppure a sinistra sono bravissimi a festeggiare il fatto di non esser stati cancellati dalla faccia della terra».

Soprattutto i Cinquestelle sono crollati ma restano determinante in Parlamento. Riusciranno a governare?
È evidente che ormai c'è un'importante distanza sia sul piano quantitativo sia sul piano qualitativo tra il Paese e la rappresentanza parlamentare. Prima di tutto perché gli italiani hanno votato per tagliare il numero di deputati e senatori. Di conseguenza, come dice Feltri, è curioso che i Cinquestelle, moralisti a parole, ora rimandino l'applicazione di questa norma al 2023. Se volessero essere coerenti dovrebbero essere disposti a sciogliere le Camere».

 



Le diranno che finché c'è una maggioranza la Costituzione prevede che si vada avanti.
«Sì, ma ormai Camera e Senato sono lontani anni luce dal consenso dei cittadini. Né si può considerare il presidente della Repubblica un banale notaio delle maggioranze parlamentari, altrimenti non esisterebbe l'istituto dello scioglimento anticipato che può scattare nel momento in cui si dovesse ravvisare che c'è troppo divario tra sentimento popolare e le scelte del palazzo. E poi c'è un discorso morale».

Cioè?
«Il Movimento Cinquestelle ha preso il 32% dichiarandosi l'alternativa alla sinistra e si è candidato per mandarla a casa. Allo stesso modo, il Pd ha fatto una campagna elettorale sostenendo di voler combattere i grillini. La democrazia parlamentare non funziona così, non si possono raccontare favole ai cittadini e poi, una volta ottenuto il voto, iniziare a fare i propri comodi. I politici sono vincolati a quello che promettono».

Poi c'è il tema della legittimità: secondo alcuni esperti l'attuale Parlamento non avrebbe le carte in regola per eleggere il nuovo presidente della Repubblica.
«Premesso che anche per queste problematiche da tempo sosteniamo che sarebbe giusto procedere all'elezione diretta del presidente della Repubblica, è chiaro che in questo momento ci troviamo di fronte a un paradosso normativo. Il peso dei senatori a vita con meno deputati viene moltiplicato. Così come sarebbe alterato il ruolo dei delegati regionali. Dopodiché non voglio insegnare il mestiere al presidente ma forse c'è del materiale per ragionare».

In tutto ciò si parla solo di governo rafforzato da queste Regionali.
«Sì, anche se invece ne esce chiaramente indebolito. Prima di tutto perché il gruppo di maggioranza relativa che sostiene la maggioranza è ridotto ai minimi termini, il che sta già agitando le acque all'interno di M5S. In più il presidente del Consiglio, per salvaguardare la sua poltrona, ha inviato i suoi emissari in campagna elettorale a chiedere il voto disgiunto per i candidati del Pd. E anche questa cosa è destinata a creare fibrillazioni. Non sottovalutiamo poi il ruolo di Renzi che è uscito a pezzi da queste elezioni e ora farà di tutto per riaffermarsi politicamente. Mi pare una realtà estremamente instabile. Non a caso invece di occuparsi degli interessi del Paese perdono tempo a parlare di rimpasto».

 



Però ci sono i duecento miliardi del Recovery Fund da spendere e che alla fine potrebbero mettere tutti d'accordo.
«Questi signori penseranno solo a sistemare le loro questioni interne. Di conseguenza ogni iniziativa verrà approvata con un compromesso al ribasso. La sfida dell'Italia, però, non è mettere insieme partiti che si detestano per poter dividere con calma i fondi tra le varie iniziative clientelari dei partiti che compongono la maggioranza. A noi serve una visione precisa del Paese. Storicamente è questa la differenza tra noi e la sinistra: tutti sanno quali sono le nostre idee, dalle tasse da tagliare, agli investimenti pubblici, per arrivare al taglio della burocrazia e al sostegno del marchio italiano. Questo governo invece ragiona solo sul principio della prebenda».

Conte però la poltrona non la mollerà facilmente.
«No, ovvio che la poltrona non la mollano neanche se viene giù un asteroide, però prima o poi qualcuno si porrà il problema di guardarsi allo specchio. In passato mi è capitato di non sentirmi a mio agio in politica, così ho fondato un partito e ho rischiato di non essere eletta. Qui invece mi pare che si ragioni con logiche di conservazione perfino su questo tema. Però questo porterà a una paralisi del Parlamento, che avrà delle conseguenze».

Si parla molto anche di dialogo con l'opposizione riguardo al Recovery Fund.
«Sì certo, dal decreto Curia Italia in poi solo come Fdi abbiamo presentato una cosa come 2000 emendamenti. Non ne è stato accolto nessuno. Anche per una questione statistica su 2000 una proposta buona ci sarà stata. Il problema è che non possono accettare modifiche: dovendo difendere un equilibrio estremamente delicato non si possono permettere di aprire all'opposizione. Sul Recovery Fund faranno la stessa cosa, useranno quei soldi per comprare il consenso senza avere un'idea, con risultati prevedibili».

Le ambizioni di Fdi visti gli ultimi risultati quali sono? Può insidiare la leadership del centrodestra?
«L'ambizione è crescere il più possibile, ma non ha alcun senso che pensi di farlo a discapito degli alleati. Il mio obiettivo è andare al governo. E siccome quando ci arriveremo avremo già tanti nemici, anche autorevoli, che cercheranno di farci a pezzi, io ci voglio arrivare con numeri importanti e facendo gioco di squadra. Abbiamo bisogno di persone che combattono fianco a fianco e che non si fanno sgambetti. Non avremo tante occasioni, non intendo sprecarle».

Tra gli eletti di Forza Italia si discute molto dopo il voto. Per Mara Carfagna queste elezioni dimostrano che "il quinquennio del populismo è finito".
«Non apprezzo queste etichette, populista non so neanche cosa significhi. Così come non ho mai inteso il senso del termine moderato. Ho capito solo che di solito quando lo si usa si parla di trasformismo. Uno è moderato se parla di sostegno alle imprese, ma con un pedofilo ha senso essere moderati? Sono etichette buone per il dibattito di palazzo. Al massimo posso dire che la nostra è una forza popolare, ma non credo che sia finita l'epoca di stare in mezzo alla gente? Dalle nostre piazze non sembra. Dai nostri risultati neanche. Dopodiché è vero che fanno di tutto per tirarci nelle polemiche: io continuo a ricevere domande su Salvini nella speranza che un'uscita sbagliata logori i rapporti. E viceversa. Credo però che nei momenti importanti abbiamo sempre dimostrato di saper camminare a braccetto. Questo è essere una coalizione».