Zone rosse

Attilio Fontana e il coronavirus, Senaldi: "I tre documenti che assolvono il governatore e inchiodano Conte"

Pietro Senaldi

L'attacco che la maggioranza, e gli organi di stampa allineati, stanno portando da mesi alla Regione Lombardia ha poco a che vedere con l'intenzione di rendere giustizia alle vittime del Covid-19. Lo scopo dell'offensiva è duplice. Il primo è trovare qualcuno su cui scaricare le responsabilità del governo per il dilagare della pandemia. Conte e compagni hanno acceso il faro sulla comunità che ha avuto più morti, essendo la più popolosa e la più esposta in termini di scambi internazionali, per mettere in ombra le proprie manchevolezze. Nessun altro governo nel mondo ha criminalizzato le sue città più martoriate. Il secondo scopo è indebolire la Lega, che ha nella Lombardia una Regione simbolo del proprio modello amministrativo, contrastarne le rivendicazioni autonomiste e ridimensionare Salvini. Allo scopo è stata funzionale anche l'insolita esaltazione del modello Zaia, di cui la sinistra si è innamorata benché egli governi il Veneto da dieci anni. In Procura a Bergamo è stata avviata un'inchiesta sulle ragioni della mancata zona rossa nei comuni orobici di Alzano Lombardo e Nembro. Gli esperti hanno già detto che il nesso tra la ritardata chiusura e le morti è difficilmente probabile, ma il processo serve a mettere alla sbarra il sistema di potere lombardo, nel tentativo di farlo cadere. Più cose però nell'impianto accusatorio non quadrano, tant' è che la procuratrice che ha avviato l'inchiesta ha dichiarato che le responsabilità della mancata zona rossa non sono della Regione. Parere autorevole, peccato che non sarà la signora a chiudere l'inchiesta, perché la Procura di Bergamo attende un nuovo capo. Il premier Conte ha detto ai magistrati di ritenere di non avere nessuna responsabilità e che Fontana avrebbe potuto chiudere le due cittadine anche andando in contrasto con il governo, facendo appello a una norma del 1978 che però il principe dei costituzionalisti italiani, Cassese, ritiene non si applichi in caso di emergenza nazionale. Ma sono le carte in mano alla Regione, con la cronistoria di quello che accadde tra le istituzioni tra fine febbraio e inizio marzo a scagionare più di ogni altra cosa Fontana e la sua giunta. Fino al 21 febbraio, il governatore lombardo e il ministro della Salute agirono all'unisono, sottoscrivendo a doppia firma ogni ordinanza. Il 23 però cambiò tutto. L'esecutivo emanò un decreto legge (Dl 6/2020) e un decreto della Presidenza del Consiglio che prevedevano esplicitamente che le misure di contenimento e gestione dell'epidemia dovessero essere decise esclusivamente con provvedimenti di Palazzo Chigi. Alle Regioni era lasciata una potestà di gestione residuale, esercitabile solo nelle more dell'adozione dei decreti del presidente del Consiglio. Ma questo periodo interlocutorio non ci fu mai, visto che dal 23 febbraio fino al 9 marzo, quando Conte chiuse tutta Italia, il governo emanò ben cinque decreti presidenziali.

 

 

 

I territori "arancioni" - In particolare nel provvedimento del primo marzo Conte, nel confermare la zona rossa di Codogno, stabilì specificatamente misure più leggere per la Bergamasca e le zone di Lodi, Cremona e Piacenza, provincia che poi ebbe il numero più alto di decessi in rapporto alla popolazione. Territori che vennero definiti aree arancioni, per differenziarli sia dalle città chiuse che dal resto del Paese. Il 3 marzo poi ci fu una riunione operativa a Roma, alla quale erano presenti anche l'assessore lombardo alla Sanità Gallera e il ministro della Salute Speranza, nella quale gli esperti del governo, il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità, Brusaferro, e il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Locatelli, si espressero a favore della zona rossa per Alzano e Nembro, rassicurando la Lombardia e ribadendo che la gestione dell'emergenza era in mano al potere centrale. In serata l'esecutivo mosse l'esercito per chiudere l'area e Fontana si sentì sollevato. Se il governatore avesse emesso di propria iniziativa l'ordinanza che dichiarava la Bergamasca zona rossa avrebbe fatto uno sgarbo istituzionale e avrebbe contravvenuto alle disposizioni di Conte. L'iniziativa sarebbe stata bollata come un'azione sovversiva in un momento d'emergenza, giacché la Regione si sarebbe impadronita della gestione dei militari. Tanto più che, negli stessi giorni i ministri Boccia (Autonomie) e Lamorgese (Interno) diffondevano circolari interpretative dei decreti del premier nelle quali ribadivano l'esigenza che non vi fossero sovrapposizioni di direttive tra il centro e i territori in materia di ordine e sicurezza pubblica. Tradotto: un messaggio chiaro alla Lombardia a non azzardarsi a dare disposizioni a militari e forze dell'ordine. C'è poi un'altra responsabilità del governo che è stata tenuta nascosta a lungo. Dopo aver respinto la richiesta delle Regioni leghiste di mettere in quarantena chiunque, cinese o no, provenisse da Pechino, tacciandola di razzismo, il governo, il 22 gennaio 2020, emanò una circolare per l'identificazione dei malati di Covid-19 che avrebbe potuto salvare decine di migliaia di vite.

 

 

 

Retromarcia sui tamponi - La disposizione ordinava infatti agli ospedali di fare tamponi a chiunque subisse un drastico peggioramento delle proprie condizioni di salute, indipendentemente dalla patologia dalla quale fosse affetto e dal luogo di origine e provenienza. Purtroppo il provvedimento durò solo 5 giorni, perché il 27 gennaio la circolare che lo sostituiva limitò l'obbligo di tampone solo ai pazienti affetti da gravi difficoltà respiratori o giunti dalla Cina. I due atti sono stati acquisiti dai pm di Bergamo quando, una settimana fa, scesero a Roma per interrogare Conte. Con la dichiarazione di Richard Horton, direttore di Lancet, la più importante rivista scientifica del mondo, secondo il quale se l'Italia avesse chiuso prima, avrebbe salvato molte vite, le due circolari di gennaio contribuiscono a scrivere un verdetto di colpevolezza per Conte e l'esecutivo e di assoluzione per Fontana e la Lombardia.