Democratici da barzelletta
Pd, da Veltroni a Bersani, da Letta a Renzi: 7 anni di suicidi politici
"Il Pd conferma il suo sostegno deciso al governo". Il destino di un partito "per il nuovo Millennio" sta tutto qui, in quelle parole pronunciate da Walter Veltroni nel suo discorso d'incoronazione nel giugno 2007 al Lingotto. Aveva appena vinto le primarie "pilotate", l'ex sindaco di Roma, e sulla carta doveva essere l'erede di Romano Prodi, eletto premier un anno prima. Il Partito democratico, fusione a freddo di Ds e Margherita, era la spina dorsale del governo-ammucchiata del Professore. Talmente Armata Brancaleone da non riuscire a reggere ai colpi di franchi tiratori e dissidenti vari, d'altra estrazione. E così, dopo la promessa di Veltroni, passa una manciata di mesi e Prodi cade. Storia già vista? Sì, in queste ore, con Matteo Renzi nuovo segretario (e con un discorso che in molti punti e parole chiave rispecchiava quello del fondatore, da "giovani" a "merito" fino a "cambio generazionale") capace di accoltellare il premier Enrico Letta dopo settimane di rassicurazioni e sorrisi condiscendenti. Renzi ha addirittura lanciato un hashtag nel suo stile, #enricostaisereno. Letta cornuto e mazziato, alla faccia della tranquillità zen. Se insomma il Partito democratico è nato sotto pessimi auspici, poco ha fatto per cambiare strada. Anzi, anno dopo anno, scelta dopo scelta ha confermato l'ineluttabilità alla tendenza autodistruttrice. Ovvero: ecco come muore un partito italiano. La paura di governare - La via crucis democratica è uno specchio fedele dello stato della sinistra italiana, stazione dopo stazione. Dopo la caduta di Prodi e il trionfo del Pdl di Silvio Berlusconi alle elezioni 2008, i dem con segretario Pierluigi Bersani passano 3 anni da film horror: opposizione ai minimi termini, visibilità garantita solo dalle manifestazioni di piazza in stile Se non ora quando, che cavalcano i guai sessual-giudiziari del Cavaliere. Con il governo di centrodestra al collasso, e le vittorie alle amministrative di Milano e Napoli, Bersani si illude di poter esportare la rivoluzione arancione anche a Roma. Il suo guaio è che quando potrebbe toccare a lui sostituire Berlusconi a Palazzo Chigi, mezzo partito lo stoppa e si schiera col presidente Giorgio Napolitano: meglio Monti e un governo tecnico piuttosto che tornare alle urne. In sostanza, è il calcolo dei democratici, è più conveniente accollarsi la responsabilità di eseguire i diktat di Unione europea, Bce e Fmi dividendosela con Berlusconi, Mario Monti e Casini. Bersani abbassa il capo, consapevole che la occasione arriverà. Passa un anno, autunno 2012. Il vento dell'anti-Casta è sempre più forte. Pierluigi rappresenta il "vecchio", il rampante Renzi al grido "rottamazione" lo sfida nelle primarie, che precedono di un paio di mesi le politiche del 2013. I sondaggi dicono che il Pd ha la vittoria elettorale in tasca, l'elettorato democratico diffida della carica "berlusconiana" del sindaco di Firenze e preferisce confermare Bersani candidato premier, anche grazie a regole fatte apposta per spianare la strada a Bersani. Pochi lo sospettano, nel dicembre 2012, ma è l'inizio della fine del partito. La "non vittoria" di Pier - L'uomo di Bettola porta il Pd alla più storica delle "non vittorie", con una campagna elettorale sulla difensiva, sottotono, sovrastata dalla verve del rinato Berlusconi e dell'arrembante Beppe Grillo. Risultato: i dem ufficialmente ottengono la maggioranza alla Camera, ma al Senato è stallo. Bersani decide di completare il suo disastroso tour de force perdendo un mese e mezzo nel tentativo impossibile di diventare premier con Sel e parte dei grillini. Un suicidio politico, probabilmente sostenuto da chi all'interno del partito lo voleva fare fuori. Bersani fallisce, al suo posto va a Palazzo Chigi Enrico Letta. In mezzo, c'è però il tragicomico balletto sull'elezione del nuovo presidente della Repubblica. E' quella settimana, tra gli autosiluramenti dei candidati al Colle Franco Marini e Romano Prodi, ad essere lo specchio più fedele dello stato confusionale del Pd. Marini prima e Prodi poi vengono mandati al macello parlamentare: le due candidature decise dal Pd, in altrettante assemblee plenarie dominate da plebisciti circondati da veleni e doppi giochi, vengono affossate dallo stesso Pd. A Montecitorio quorum mancati e franchi tiratori democratici. Soprattutto sul professore, scelta interna dopo il ko del bipartisan Marini, è evidente la spaccatura del Nazareno. Sono i 101 cecchini (o 120, come sostiene Prodi?): lettiani, dalemiani, bersaniani, renziani, giovani turchi, tutti finiscono sotto accusa. Alla fine verrà rieletto Napolitano, mentre lontano da Roma Renzi prepara meticolosamente l'assalto finale alla nomenklatura democratica. Il vicolo cieco degli anti-Cav - Dopo un inizio promettente, Letta s'incarta sotto i colpi della Cassazione, che mette fuori gioco Berlusconi per il processo Mediaset. Il Pd ha un'altra occasione per cambiare pagina: potrebbe frenare sulla decadenza immediata del Cav, consolidare larghe intese e pacificazione, invece sceglie il percorso più sicuro: fare fuori l'eterno nemico una volta per tutte. Un disastro, perché Berlusconi decide di uscire dalla maggioranza anche in seguito al pasticcio su Imu e Iva. La maggioranza del governo Letta è ai minimi termini. In Parlamento, i renziani iniziano a prendere sempre più forza perché fuori è Renzi a dettare la linea. Ha deciso di restare fuori dai Palazzi, Matteo, e ora ha le mani libere per prendersi la segreteria, orfana del dimissionario Bersani, e leadership. Renzi, turandosi il naso - Altro giro, altre primarie. E qui la storia è fresca: la concorrenza di fatto non c'è, anche i dem più scettici sanno che l'unica speranza di vincere è affidata al giovane e trasversale Renzi. L'8 dicembre 2013 votano in massa per lui, molti turandosi il naso. Il successo larghissimo su Gianni Cuperlo e Pippo Civati blinda il nuovo segretario, che decide di muoversi come un elefante in una cristalleria. Direzione democratica "renziana", prima mossa ufficiale l'intesa con Berlusconi sulla legge elettorale, con tanto di incontro decisivo al Nazareno. Gli elettori di centrosinistra hanno subìto ogni genere di umiliazione, per colpa dei propri rappresentanti. Ormai fanno spallucce, perché conta solo vincere. Cuperlo, nominato presidente, si dimette in polemica con la gestione autoritaria e dirigista del segretario. Pazienza, pensano, se il "cuore" ex Pci-Pds-Ds è un ricordo. "Conta vincere", lo diceva anche Renzi nel suo slogan "cambiare verso". Da vincere a "prendere tutto" il passo è breve. E finché si vince, tutti saltano sul carro, da Massimo D'Alema in giù. Se il futuro premier, con questa manovra di palazzo, avrà peccato d'arroganza laddove Veltroni, Bersani ed elettori hanno peccato d'indecisione o paura, lo si capirà tra qualche mese. E forse ci si domanderà se è stato un suicidio del segretario o un altro omicidio, commissionato da chi diceva di sostenerlo e da chi lo ha consigliato. di Claudio Brigliadori