Dietro le quinte

Pd, il piano del correntino per far fuori Renzi

Andrea Tempestini

Stefano Fassina sale sul palchetto del Nazareno e sventola la maglietta degli esodati: «Fate presto!». L’ex viceministro dell’Economia,  “vittima” numero uno della gestione piddina di Matteo Renzi, dimessosi dal governo dopo una battuta del segretario, è il primo “frondista” a prendere la parola. «Vorrei sapere cosa pensa il Pd del programma del governo», attacca. Perché il sindaco di Firenze da settimane si limita a chiedere un «cambio di passo», ma non spiega nè in quale direzione, nè in che modo attuarlo. «Serve un protagonismo pieno del partito», incalza. Quando l’economista è intervenuto alla Direzione,  Renzi aveva appena preso - nuovamente - le distanze dall’esecutivo, scindendo i destini del partito da quelli del governo. Il sindaco continua ad opporsi ad un ingresso «visibile» dei suoi nella compagine di Enrico Letta e vuole mantenere vivo lo schema del partito «di lotta e di governo», almeno fino alle prossime Europee che saranno il primo banco di prova della sua gestione. Le minoranze interne, però, provano ad incalzarlo. C’è tutta la componente che sostenne il suo sfidante Gianni Cuperlo, i filo cigiellini come Fassina, i dalemiani come Cesare Damiano, i bersaniani come Alfredo D’Attorre e i popolari come Giovanni Fioroni. Tutti sanno che un coinvolgimento diretto del segretario ora, significa per loro avere maggiori chance di riconquistare il partito e, probabilmente, pure logorare la leadership del “rottamatore”.  «Se servono dei cambiamenti, facciamoli», dice Fassina, «altrimenti assumiamoci la responsabilità di dire che in questo Parlamento non ci sono le condizioni e scegliamo la strada elettorale». O Renzi si assume una responsabilità diretta - diventando premier - o indiretta - promuovendo alcuni dei “suoi” ministri, o tanto vale votare. Ancora più chiaro il bersaniano Alfredo D’Attorre. Si sono sfilati solo i “Giovani Turchi” di Matteo Orfini e Andrea Orlando. «Come assicuriamo un governo forte e autorevole? Con un impegno convinto e totale del Pd», ha spiegato. L’ex sfidante del segretario, Cuperlo, la prende alla larga: «Abbiamo due strade: la prima è una vera ripartenza del governo, con un nuovo profilo e prestigio del governo», dice. «Se non ci sono queste condizioni sui giornali si parla di un’altra ipotesi...», aggiunge alludendo alla “staffetta” a Palazzo Chigi. Quindi esorta il segretario a fare una proposta, ad autocandidarsi. L’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano lo va dicendo - senza metafore - da giorni: si valuti l’ipotesi di mandare Renzi a Palazzo Chigi.  Idem Davide Zoggia, ex numero due del segretario-smacchiatore: «Serve un nuovo governo. La sensazione è che ci siano due Pd: quello delle riforme che corre e quello del governo in affanno». Bisogna renderli una cosa sola, dice. Chiede un impegno del segretario anche Giuseppe Fioroni. La sua corrente di ex dc è in affanno e già aveva minacciato la scissione dopo che il Pd ha deciso di ospitare il congresso del Pse. L’ex ministro, però, ha le idee chiare: «Il governo Letta va potenziato, ma se il partito non lo fa, l’unico esecutivo possibile è quello Renzi». Il segretario non ci pensa proprio. Non, almeno, fin quando sarà approvato l’ “Italicum”.  Renzi sa che il voto anticipato col Consultellum è una trappola: le minoranze potrebbero fare la scissione e portare a casa un bel po’ di eletti. di Paolo Emilio Russo