Come stanno le cose
Napolitano, il novantenne che comanda l'Italia
«Vedrai, vedrai / vedrai che cambierà / forse non sarà domani / ma un bel giorno cambierà. / Vedrai, vedrai / non son finito sai / non so dirti come e quando / ma vedrai che cambierà». C’era un forte retrogusto di Luigi Tenco nelle parole usate ieri da Enrico Letta durante la conferenza stampa di fine anno. Soprattutto in quell’abuso di verbi al futuro: «Vedrete, l’anno prossimo commenteremo dati economici positivi»; «l’anno prossimo questa generazione farà svoltare l’Italia»; «il carico fiscale scenderà»; «i proventi da spending review porteranno risorse che serviranno a ridurre le tasse sul lavoro». Un bel giorno cambierà. È l’ammissione che l’esecutivo, nei 240 giorni trascorsi dall’insediamento a oggi, ha fatto poco o niente. Non che manchino le scuse. Ieri Letta ne ha persino tirata fuori una buona: all’origine di tante «turbolenze» politiche che hanno impedito al governo di lavorare, ha detto, c’è «la sentenza che ha riguardato uno dei tre leader che hanno fatto nascere questo governo », insomma il caso-Berlusconi che ha sconquassato la maggioranza. E qualcosa di vero ovviamente c’è. Ma è la normalità, non un’eccezione che le coalizioni siano scosse da fattori esterni. Un esempio? Tra cinque mesi ci saranno le elezioni europee e la campagna elettorale è già iniziata. Matteo Renzi ha cominciato a far sentire i tacchetti sugli stinchi degli alleati, il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano ha fatto sapere che l’ipotesi di una crisi di governononlo spaventa e Scelta Civica ha assicurato che il voto di fiducia è stato l’«ultimo appello» a Letta: o si cambia o persino loro se ne vanno. È solo l’inizio: il copione dei prossimi mesi prevede botte da orbi. E dopo l’estate (sempre ammesso che non si trasformi il 25 maggio in un election day, come sognano tanti renziani e berlusconiani) partirà lacampagna per le politiche della primavera del 2015, alle quali gli alleati di oggi correranno come avversari non per un seggio secondario a Strasburgo, ma per governare il Paese durante la prossima legislatura. Insomma, le «turbolenze» causate da fattori esterni possono solo peggiorare e chi governa avrà sempre un’ottima scusa per dire che la colpa non è sua. Sarà già un miracolo se dal caos attuale riuscirà ad emergere, prima del voto, una legge elettorale appena decente. La verità è che se un governo e una maggioranza sono forti le riforme le fanno comunque, se invece riescono solo a galleggiare non vanno più in là dei provvedimenti clientelari («marchette», in gergo parlamentare) con cui in questi giorni sono stati inzeppati il decreto Salva-Roma e il cosiddetto Mille-proroghe. Manca l’intesa per abolire le province e una vera riforma della giustizia possiamo scordarcela («non penso che l’Italia abbia bisogno della mega riforma, ma di alcuni tasselli che riescano a sbloccare i nodi», ha detto ieri mastro Letta). Però far piovere 20 milioni sul trasporto pubblico calabrese e altri 23 milioni sulle ferrovie della Valle d’Aosta è facile. Basta seguire l’au rea regola del log-rolling, concime di ogni sottobosco parlamentare: io deputato di destra e del Nord voto una «marchetta» a te, che sei di sinistra e del Sud, e tu voti una «marchetta» a me. Così alla fine ambedue le«marchette» diventano legge e siamo tutti contenti (esclusi i contribuenti, che tanto non hanno voce in capitolo). Il crescente ricorso del governo al voto di fiducia (ieri è accaduto sia al Senato che alla Camera, su due distinti provvedimenti), conferma però che nemmeno una simile logica di scambi può andare avanti a lungo, se non c’è una strategia politica in grado di tenere insieme il tutto. Letta sostiene che il collante esiste ed è di tipo generazionale. «Il 2013 è stato l’anno di una svolta senza precedenti, quella della generazione di quarantenni», ha sostenuto il presidente del Consiglio alludendo a se stesso, a Renzi e ad Angelino Alfano. Insieme, ha detto, «abbiamo l’anno prossimo la possibilità di far svoltare l’Italia». Si è smentito subito dopo, chiamando per nome il vero protagonista di questa fase, l’unico che nel 2013 ha saputo tenere insieme tutti i pezzi del mosaico e che è in grado di farlo nei prossimi dodici mesi: «L’Italia ha avuto in Napolitano un punto essenziale saldo, fermo e attento al dettato costituzionale». Sulla stretta aderenza del Capo dello Stato al ruolo che gli riserva la Costituzione si può discutere, masul resto Letta ha più ragione di quanto lui stesso creda: l’Italia è stata e rimane nelle mani di un abilissimo politico nato l’anno in cui fu inventata la televisione e il governo Mussolini impose l’obbligo del saluto romano. Altro che «svolta generazionale»: tutto dipende da un signore la cui età supera di tre anni quelle dei due homines novi del Pd, Letta e Renzi, messe insieme. Senza Napolitano non ci sarebbe stato il governo Letta, imposto e mantenuto in vita dal presidente della Repubblica, non ci sarebbe stata la scissione del Nuovo Centrodestra di Alfano da Forza Italia e probabilmente Pier Luigi Bersani non avrebbe avuto in sorte la brutta fine che gli ha riservato il Colle, lasciando così campo libero all’ascesa del sindaco di Firenze. Piaccia o meno ai tre «quarantenni » rampanti (e a Renzi di sicuro non piace), sono tutti nipotini di nonno Giorgio. Il terremoto che ha fatto cadere la generazione politica dei Massimo D’Alema e dei Silvio Berlusconi non lo hanno scatenato gli enfants terribiles post-ideologici e twittanti con la loro formidabile carica innovativa (della cui esistenza ancora non si hanno prove), bensì un ottantottenne che prese la tessera del Pci nel 1945. Che è anche l’unico autorizzato a parlare di futuro, visto che sarà lui a deciderlo. La tragedia italiana, in estrema sintesi, è tutta qui. di Fausto Carioti