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Gianfranco Fini, chi si rivede: l'ex leader di An spunta nel film su Umberto Bossi

Maria Pezzi

Umberto B. è un titolo che comunica una suggestione evidente. Richiama "Umberto D." di Vittorio De Sica, e mantiene la promessa: la sua poetica tristezza questo film-documentario di 82 minuti ce l' ha. Val la pena guardarlo domani sera sul "Nove", la rete dove si esibisce Maurizio Crozza. Francesco Amato ha dedicato questo suo lavoro al "Senatur", a Bossi. E lo fa con affetto. Egli ha dichiarato che si tratta di "appunti" in vista di un film futuro, cita Mario Monicelli il richiamo all'Armata Brancaleone. Leggi anche: L'ex fedelissimo di Gianfranco Fini si schiera con le sardine Non so se il progetto che aveva in testa l' autore (bravissimo) corrisponde a quanto alla fine ci offre. Forse è questa la sorpresa dell' arte. Hai un' idea. Ma l' opera ha una sua volontà indipendente. Di certo il personaggio Bossi in questa quasi ora e mezza balza fuori dal pregiudizio buono o cattivo che sia. Esce dalle cornici della retorica o della gelida analisi politica, con una forza e una tenerezza che da sole spiegano perché è stata una figura storica per questo Paese. Il suo modo di vivere la politica, il pionierismo da rivoluzionario senza fucili, il dolore e l' ironia con cui ha vissuto persino di politica nella malattia e dopo la malattia, sono un trattato che azzera qualsiasi discussione sulla bellezza dell' impegno nella vita pubblica, ammaccarsi per un sogno, accettare la sconfitta, senza piagnistei, senza mai chiudersi in un intimismo consolatorio. Pazzesco. Si parte dal finale -  Il film-documentario è fatto così. Ci sono immagini e si sentono le voci di Bossi durante tutti i trent' anni di politica di cui ci sono documenti televisivi. La storia di Bossi e della Lega comincia con il finale: Matteo Salvini che arriva a Cantù, accolto da una folla entusiasta, cita «il genio assoluto di Gianfranco Miglio», non cita Bossi. E tutti capiamo che cosa ci dice il regista. Poi ecco la bruma lombarda. I prati ordinati, che lasciano spazio a una scacchiera di fabbriche. Il giovanissimo Bossi, con una voce che oggi non ricordiamo più, dice le sue parole rivoluzionarie: «I figli del grande popolo del Nord avranno l' indipendenza. Il Nord vuole libertà e indipendenza». Si susseguono le interviste, tagliate perfettamente per ogni anno, episodio, per ogni frammento del carattere di Bossi. Parlano Alessandro Patelli che mostra la casa natale di Bossi e racconta come si addossò la responsabilità per la tangente da duecento milioni di Enimont. Ci sono Roberto Maroni, Giancarlo Pagliarini, Giuseppe Leoni (l' amico vero e permanente di Bossi), Francesco Speroni, Roberto Castelli, Irene Pivetti: tutta gente che non ha più titoli dirigenziali nella Lega, nessuno che ne misconosca la grandezza, anche se qualcuno tra loro ha cercato di fargli le scarpe, per consegnarle a Salvini. Sono sinceri, non manca Leoni che racconta delle "schifezze" cui assistette dopo la malattia di Bossi, l' 11 marzo del 2011, mentre la segretaria dice della folla che stava intorno all' ospedale di Varese, «e stava lì, stava lì, non andava via». Ed ecco le immagini. Non è un amarcord. C' è la storia che si mostra nel suo svolgersi. Altro che folklore. Parlano anche giornalisti non certo leghisti come Gad Lerner e tra i politici d' altro sentire ecco Gianfranco Fini e Massimo D' Alema, che non riesce a nascondere l' affetto, e la stima per «l' animale, il barbaro, che era spontaneo, e per cui mi accorsi votavano gli operai del Nord». Racconta che Bossi abitava in un locale disadorno, caotico, alla periferia di Roma, e che offrì a lui e Buttiglione pane in cassetta e una scatola di sardine aperte, dove Bossi intingeva il pane. «Io non solo non mangiai, ma neanche osavo guardare. Possedeva una forza, un vitalismo che manifestava disprezzando gli agi della vita romana». Bossi attacca Berlusconi, e Berlusconi dà del traditore a Bossi. Eppure rieccoli insieme, come non potessero fare a meno l' uno dell' altro. Per approfondire leggi anche: Umberto Bossi graziato da Sergio Mattarella Amici sempre e per sempre. L' indipendenza in Bossi resta un sogno cui mai ha rinunciato e rinuncerà, cita Annibale, e dice che lo «chiamammo noi del Nord per dare battaglia al nostro nemico di sempre, Roma». Roma? Ne disprezza l' essenza centralista, il suo parassitismo, ma i romani non li detesta, vuol bene a tutti, anche ai "terroni", la moglie Manuela è terrona, figlia di siciliano, dice che se suo figlio si innamorasse di un' immigrata direbbe: «L' amore ha il primato su tutto», e con paternalismo parla di negretti, che starebbero meglio a casa loro. Nessun odio, né razzismo, anche quando parla di «baionette innestate sulla canna del fucile con cui staneremo la partitocrazia», e il popolo respira con lui. Manuela, la moglie, s' innamora di uno spiantato, del suo ardore politico, capace, però, di organizzare il suo partito come una macchina poderosa. Sentirlo oggi, quando rivendica il celodurismo, come visione poetica e metaforica della lotta politica: «Noi non molliamo, abbiamo il manico duro, e siamo fertili». L'umorismo dell'idealista - La antropologa francese di sinistra, Lynda Dematteo, dice che «nessuno dopo di lui ha saputo comunicare con l' umorismo, con la distanza che creava Bossi». La distanza è quella capacità di dire e credere cose serissime, ideali per cui morire, ma senza grevità, senza ritenersi un essere superiore. Gli ultimi anni sono quelli della manifestazione delle scope che lo cacciano via. Poi del congresso che lo emargina e lui, con la voce cambiata, con il lato destro del corpo paralizzato, racconta al microfono la storia di Salomone e del bambino. La vera madre del bambino è lui, l' Umberto, che pur di non farlo tagliare a metà, rinuncia, lascia la maternità a chi l' ha lasciato lì, in Parlamento ma solo. Gli ultimi cinque minuti sono i più belli. Aspettateli tutti, salviniani, bossiani, sardine, forzisti, grillini. Si vede lui che va lo stesso a sedersi a un angolo di tavolo, trascurato. Sale sul palco per parlare, tirandosi su a fatica lungo la rampa. Io direi, molto bossianamente, ma secondo me dovrebbe dirlo ad alta voce anche Salvini: cazzo, questo qui è un eroe, non morirà mai. di Renato Farina