Bestiario
Pansa: "Quasi quasi divento un tifoso grillino"
Un tifoso del Duce stellare? Non credo che lo diventerò mai. Ma la tentazione comincia ad affacciarsi. E se spunta dentro di me è un bel guaio, perché può emergere in tanti altri meno difesi del sottoscritto grazie al suo innato qualunquismo. Non credo di averlo mai confessato, ma sono sempre stato molto scettico nei confronti dei partiti. È un atteggiamento che ho ereditato da mia madre Giovanna. Era una modista e pellicciaia, con un negozio ben avviato nel centro della nostra piccola città. E tra la sua clientela aveva anche le mogli e le amanti dei politici locali. Negli inevitabili cicì e ciciò che affiorano sempre nei negozi frequentati da donne, venivano allo scoperto i difetti dei maschi con la bacchetta in mano. Erano difetti da poco, perché negli anni Cinquanta e Sessanta la politica risultava di costumi ben più modesti di quella odierna. Eppure già allora si notavano i primi vizi di un ceto che sembrava illibato. Mia madre ascoltava quelle sue clienti con uno scetticismo crescente. Quando ho iniziato a lavorare nei giornali, e ho preso a occuparmi soprattutto della politica italiana e dei partiti che ne erano i padroni, ho scoperto che il qualunquismo di mia madre era l’atteggiamento giusto per un cronista del Palazzo, come si diceva allora. Ne sono convinto ancora oggi: il buon giornalista che scrive di politica interna ha l’obbligo di essere uno scettico totale, non deve credere a nessuno, guai se fa il tifo per una delle squadre in campo. Arrivo a dire che non deve aver fiducia neppure nei confronti dei leader che stima. Per un principio vecchio quanto il mondo: la natura umana è debole e chi sta molto in alto può rivelarsi un peccatore che non merita clemenza. Ecco il tipo di qualunquismo che mi difende. Ma adesso, in questo caotico settembre 2013, gli errori dei nostri politici stanno diventando davvero troppi. In tanti anni non ho mai visto un disastro così continuo, insistente e pericoloso. Nel dibattito tra i partiti domina l’odio reciproco, la voglia di distruggersi a vicenda, l’incapacità a trovare quel minimo di concordia, o di compromesso, necessario per non mandare all’aria l’intera baracca. Anche i big o i vip a caccia di posti importanti, invece di mostrarsi responsabili, si comportano da pecore matte. Straparlano, dicono enormità, rivelano una colpevole indifferenza ai doveri del rango che cercano. Volete un nome? Matteo Renzi, il democratico candidato a tutto. L’Italia ha bisogno come il pane di un governo che sia stabile e duri per l’intero tempo previsto. E invece il Renzi che fa? Blatera: «Questa cosa del governo che deve durare è un tic andreottiano». Poi insulta Enrico Letta, dicendo che «si preoccupa della seggiola a Palazzo Chigi, mentre dovrebbe pensare anche al paese». Posso dire che Renzi si comporta da fesso? No, non posso dirlo, l’etichetta non me lo consente. Posso dire almeno che il governatore della Liguria, Claudio Burlando, esperto di funghi, anche lui è un fesso perché si mette in congedo per motivi famigliari, e invece va in cerca di porcini e poi li mostra nel proprio sito Internet? No, lo stile mi vieta di dar del fesso pure al Signor Governatore democratico. Anche sul fronte del centrodestra sono parecchi i necrofori che sperano nel decesso del governo Letta. Una vip la conosciamo tutti: è Daniela Santanchè, la numero uno dei falchi berlusconiani. Ma è una signora che si fa guardare con piacere da un vecchio maschio come il sottoscritto, dunque sul suo conto non dirò nulla. Tuttavia il falchismo della Pitonessa ha fatto scuola. Venerdì, sul Giornale c’era una lunga pippa di Sandro Bondi che invitava a staccare la spina al governo. Però la prosa di Bondi, persona mite e per bene, è troppo rocciosa e non ce l’ho fatta a leggere il suo proclama. Urge mandarlo a una scuola di scrittura, per esempio la Holden di Alessandro Baricco, e forse smetterà di essere noioso. Purtroppo non esiste nessun corso di lezioni che renda meno gretto ed egoista il nostro ceto politico. È da tanto tempo che si discute di abolire il finanziamento pubblico dei partiti. Il dibattito continua, implacabile, però nessuna decisione viene presa. In questa metà di settembre i giornali avvertono: «Dopo tre mesi, si riparte da zero». L’impotenza è diventata la malattia dilagante nel Palazzo. I partiti accusano il governo Letta di ritardare le decisioni, in realtà è il sinedrio politico che si ritrae davanti alla necessità di scegliere. Siamo di fronte a un vizio assurdo che tocca l’apice in val di Susa. Qui i No Tav stanno gettando le basi di un nuovo terrorismo. Per intuire che cosa accadrà, basta leggere il reportage di Cristina Giudici, apparso sul Foglio di venerdì: «La valle della paura. Dove il luddismo dei No Tav prepara il suo violento salto di qualità». Ma a Roma i partiti se ne fottono. I grillini sono corsi a sostenere i guerriglieri. Soltanto qualche isolato parlamentare con la testa sul collo osa farsi vedere lassù. Rischia la pelle, però nessuno del Palazzo ha il coraggio di accompagnarlo. Il discredito della politica è ormai così forte da generare un fenomeno che nessuno si attendeva: la morte lenta dei talk show televisivi. Le emittenti che avevano puntato su questi spettacoli dovranno presto cambiare i palinsesti. Mi sono stancato persino io. Quando accendo la tivù e vedo le solite facce che si guardano in cagnesco, scappo altrove senza esitare. Sperando di trovare qualche vecchio film in bianco nero, per esempio Campane a martello di Luigi Zampa, anno 1949. Che ci mostra le grazie giovani di Gina Lollobrigida e di quella indimenticabile maggiorata di Yvonne Sanson. Meglio la Gina e la Yvonne che la Serracchiani e Schifani. Se il pubblico rifiuta i talk show, possiamo immaginare come si comporti quando viene richiesto di iscriversi a un partito. Il tesseramento si sta riducendo a vista d’occhio. In molte regioni, a cominciare dalla rossa Toscana, il rinnovo delle iscrizioni al Partito democratico è ancora al di sotto del cinquanta per cento. Al 13 settembre, nelle province toscane soltanto ventimila dei 55 mila iscritti del 2012 avevano confermato la loro adesione. Dal Pdl, o da Forza Italia, non arriva nessuna notizia a proposito di tessere. Ma anche nel partito di Berlusconi le campane stanno suonando a morto. I rintocchi funebri erano già iniziati dopo il voto del febbraio 2013. Allora, rispetto al 2008, il Pdl aveva perso sei milioni e mezzo di voti. Il Pd ne aveva lasciati per strada tre milioni e mezzo. Sulla Stampa un’eccellente politologa, Elisabetta Gualmini, ha scritto: «Questi due partiti sono senza leader. Il Pdl ha un leader in esilio. E il Pd è in attesa di un leader. La politica italiana è prossima al default». Ossia alla bancarotta. Non sono così masochista da augurarmi la fine dei partiti. Anche perché non sappiamo chi potrebbe sostituirli, dopo il loro fallimento. Oggi sono ancora un male necessario. Ma il futuro è sempre imprevedibile e si presenta come una minacciosa nuvola nera. Tutto può accadere. È vietato soltanto immaginare che al posto della politica comandi la magistratura. Quanto sta accadendo all’Ilva di Taranto grida vendetta. Antonio Gozzi, il presidente della Federacciai, l’associazione tra gli industriali siderurgici, ha dichiarato che la magistratura vuole «far fallire i Riva». Mi auguro che si sbagli. Altrimenti il rischio di una dittatura delle toghe, invece di essere un trucido argomento di polemica, diventerà una tragica realtà. di Giampaolo Pansa