L'editoriale anti-manettaro
Berlusconi, anche il Corriere tifa amnistia
La rissa tra politica e giustizia continuerà anche dopo il "caso Berlusconi", perché in fondo è cominciata prima del Cavaliere. E allora, finiamola qui, con l'amnistia. Non lo dicono i falchi del Pdl, non lo dice la stampa di centrodestra. L'ipotesi di "colpo di spugna" l'affaccia niente meno che Michele Ainis, esimio costituzionalista ed editorialista del Corriere della Sera. Il titolo del quotidiano di via Solferino, in verità, è un po' fumoso: "La giustizia e l'autogol della politica sull'immunità". Ma leggendo l'articolo, la tesi è chiara: progressivamente, dal 1992 e Tangentopoli ad oggi, la politica si è arresa ai giudici per un malinteso "senso di parità di fronte alla legge". Frutto di sentimenti giustizialisti fomentati in quegli anni drammatici più che di lettura "corretta" della Costituzione. Il furore di Mani Pulite - "In Italia non c'è separazione tra politica e giustizia, c'è piuttosto un territorio di competenze sovrapposte", inizia felpato Ainis. Baruffa, appunto, che inizia da prima della discesa in campo di Berlusconi. Nel 1992 inizia la trafila di pasticci che di fatto hanno slegato le mani alle toghe. Innanzitutto, si impone la maggioranza di due terzi delle Camere per la clemenza. "Significa - spiega Ainis - che è più facile correggere la Costituzione (dove basta la maggioranza assoluta) che sfollare le carceri attraverso un'amnistia". In 21 anni, non a caso, di amnistia ce n'è stata solo una, nel 2006, contro le 333 dei 150 anni precedenti. "Per castigare l'abuso abbiamo finito per vietare l'uso", chiosa la firma del Corsera. Ma la resa vera della politica alla giustizia (o alle manette) avviene nel 1993, nel pieno furore Mani Pulite: riforma dell'articolo 68 e via all'immunità parlamentare, vista al tempo (e ancora oggi) come una forma di autoassoluzione della Casta parlamentare, impunita. La soluzione c'è - Eppure, sottolinea Ainis, nella Carta Costituzionale si prevedeva l'autorizzazione a procedere e quella gli arresti. Insomma, l'ultima parola spettava sempre e solo alla politica, al Parlamento. Norma forse non all'insegna dell'eguaglianza, ma di sicuro non incostituzionale. Il voto delle Camere è "quella diga di cui abbiamo ancora bisogno", aggiunge il costituzionalista, magari temperandone l'efficacia con garanzie per la giustizia: "tempi certi per decidere, motivazione congrua del fumus persecutionis, interruzione della prescrizione". Il filosofo francese Montesquieu, padre del concetto di "separazione dei poteri", amava ripetere: "Che il potere arresti il potere". Quel motto in questi ultimi 20 anni italiani si è trasformato nel più triste "che i giudici arrestino i politici". di Claudio Brigliadori