Sprechi locali
Continueremo a pagare le provincealmeno per altri dodici mesi
No, sulle province non si può. Soprattutto per decreto. Come il gatto Silvestro del celebre spot dell’era di Carosello in bianco e nero la Consulta, nel solco dell’italico immobilismo, ha rimesso al proprio posto l’ente amministrativo intermedio, bocciando il ricorso allo strumento del decreto legge. Bene per gli strenui difensori per la burocrazia a tutti i costi, male per il governo. Che sul taglio delle province aveva speso più di un parola. E allora l’esecutivo guidato dal premier Enrico Letta, non volendo restare fermo alla casella di partenza, ha pensato bene di ricorrere al classico stratagemma del copia-incolla limitandosi a cambiare l’iter del provvedimento. Il Consiglio dei ministri, convocato per questa mattina, sfornerà un disegno di legge Costituzionale, in modo sa aggirare la bocciatura della Consulta. Il problema è che, procedendo così, si rischiano le calende greche. Per un disegno di legge costituzionale, infatti, serve una prima votazione a maggioranza da parte dei due rami del Parlamento. Dopo tre mesi la seconda votazione, sempre da parte di Camera e Senato, a cui deve seguire l’approvazione. Entro tre mesi può essere chiesto un referendum sul provvedimento, che rischia di far saltare tutto. In assenza del giudizio popolare la legge viene promulgata dal capo dello Stato. Insomma, un vero e proprio labirinto giuridico dove perdersi è facilissimo e dove l’ unica certezza sono i tempi che si allungano a dismisura. Calcoli alla mano, senza intoppi di sorta o variazioni sul tema, per portare in porto questo provvedimento occorre minimo un anno. Come minimo. Anche perché la decisione della Consulta è figlia dei ricorsi presentati da 8 Regioni (Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Campania, Molise, e Sardegna) contro il decreto Salva Italia del dicembre 2011 che con l’articolo 23 ha di fatto «svuotato» le competenze delle Province e ne ha profondamente modificato gli organi di governo. E proprio perché la materia si è rivelata un oggetto da maneggiare con cura il ministro delle Riforme, Gaetano Quagliariello, ha messo le mani avanti. «L’abrogazione delle province non deve essere uno slogan né un punto di arrivo, ma un punto di partenza», sostiene il titolare del dicastero, «non si tratta di cancellare con il bianchetto un ente, ma di riorganizzare i livelli dello Stato e dire ai cittadini chi fa cosa in modo da produrre un risparmio per il Paese». Per il presidente dell’Upi, Antonio Saitta, la sentenza della Consulta è una grande vittoria che «restituisce dignità ad una istituzione e a tutti coloro che in questa istituzione ogni giorno lavorano per garantire servizi e diritti ai cittadini». Peccato che i costi, come più volte dimostrato siano superiori ai benefici. «In un Paese normale, dopo questa sentenza, si dovrebbero abbandonare tutti i toni demagogici e qualunquisti che hanno caratterizzato il dibattito sulle province», dice Saitta, «invece continuiamo a dovere sentire dichiarazioni di questo tono da uomini di Stato, che conoscono la pubblica amministrazione». E siccome si tratta di esponenti di sinistra, il presidente dell’Upi preferisce restare nel vago, ben sapendo che si tratta di fuoco amico. Perché a ribadire la necessità del taglio, oltre al premier Letta, sono stati molti esponenti del partito di Saitta. Quando si dice una formazione di larghe vedute. Anche troppo ampie forse, per essere condivisibili. di Enrico Paoli