Di Gianluigi Paragone
Da supereroe a fallito di lusso: la storia di Monti
di Gianluigi Paragone Mario Monti forse pensava che bastasse la maschera di supereroe per diventare invincibile e pure un po’ immortale. Invece no. La realtà è ben diversa dalle élite che il professore bocconiano è avvezzo frequentare. Nella realtà non basta avere un codazzo di opinionisti specialisti del politically correct, né il solo aplomb di uomo stimato in Italia, in Europa e nel mondo «a differenza di quello là…». Mario Monti ci era sempre stato descritto così: tecnico preparato, uomo autorevole, professionista di pregiato lignaggio. Un signore tutto d’un pezzo, grigio forse ma assai competente. Invece alla prova dei fatti, molte di queste qualità sono evaporate e su Mario Monti – chi lo conosce bene lo diceva – avanzano grandi ombre di «arroganza, con l’inclinazione alla sconfitta per manifesta incapacità politica», come dicono dalle parti dell’Udc. E ora che il credito della tempesta perfetta, della crisi che morde le ginocchia e della sfiga cosmica, è finito, forse è bene che anch’egli apra gli occhi accontentandosi del grande omaggio di senatore a vita che il capo dello Stato gli ha concesso non si sa ancora bene a che titolo. Come presidente del consiglio di un governo di tecnici, Mario Monti ha «fallito»: i giovani turchi bersaniani lo dicono senza troppi giri di parole. I parametri più importanti sono negativi e soprattutto incidono nella carne viva dell’economia reale e delle dinamiche sociali. I dati sulla produttività e quelli sull’occupazione hanno risentito fortemente di un fanatismo mascherato da rigore, la cui ricaduta s’è fatta presto sentire sui ceti più fragili ma anche su quelli che un tempo definivamo come classe media, costretti a capriole cui non erano allenati. L’azione di governo è stata bocciata dagli elettori e in seconda battuta è stata accantonata persino da coloro che fino all’ultimo ne erano stati supporter. Pd, Udc e Fli. Questa loro ostinazione a non vedere le macerie del tecnicismo montiano ispirato da Bce e Fmi ha portato il Paese alla paralisi post elettorale: vorrei infatti che fosse chiaro che a tale paralisi ci si è arrivati perché il grosso degli elettori ha rifiutato le ricette draconiane di Monti e di chi lo ha sostenuto fino all’ultimo. In seconda battuta, Mario Monti si sta mostrando incapace anche sul piano strettamente politico: dalla sua salita in campo a oggi, tutte le mosse si sono rivelate fallimentari. Il premier pensava di risultare assolutamente decisivo sul piano elettorale e usando questa golden share aveva già ipotizzato un ritorno a Palazzo Chigi o alla peggio il superministero all’Economia. L’urna però gli ha distrutto questo scenario, relegandolo a un ruolo di secondo piano. I suoi voti non sono sufficienti al Pd per superare l’ostacolo, anzi quel gruzzoletto rischia di creare a Bersani più grattacapi che benefici. Nonostante questa marginalità, Monti ha poi bissato la manovra sporca (bissato perché la prima è stata la candidatura a premier sostenuto da una sua lista, facendo così dispetto prima a Napolitano poi al leader del Pd) cercando per sé la poltrona di presidente del Senato. Sulla Stampa di ieri, Monti ha rivelato la contrarietà del capo dello Stato all’operazione (meno male…), evidenziando implicitamente la delusione per il colpo basso della candidatura montiana alle elezioni. Tutti sanno infatti che se oggi i rapporti tra il Colle e i vertici del Pd sono tesi è proprio per la salita in campo di Monti che ha scompaginato le carte. Come sarebbe stato possibile infatti per Napolitano dare il via libera a Monti come presidente del Senato lasciando sguarnito il governo in questi giorni di trattative per nulla chiare? Così è scattato il semaforo rosso per la poltrona di Palazzo Madama, poltrona che (così delineavano alcuni commentatori) avrebbe potuto proiettare al Quirinale il professore. Riepilogando, nel giro di poche settimane Mario Monti ha perso tutti i treni: la presidenza del Consiglio, il superministero economico, la presidenza del Senato e la prospettiva per quella della Repubblica. E dire che se fosse rimasto fermo, una di quelle poltrone era già sua. Cos’è successo? È successo che, come mi ha suggerito un vecchio democristiano, quando uno sale sulla giostra del potere poi non vuole più scendere…