L'analisi
Solo Napolitano può evitarci il ritorno alle urne
di Fausto Carioti Le parole con cui Pier Luigi Bersani, durante la campagna elettorale, si diceva pronto a lasciare la presidenza di una Camera al centrodestra perché «nel meccanismo democratico ci sono avversari e non nemici» erano scritte sull’acqua. Alla prima prova dei fatti, il segretario del Pd e il suo alleato Nichi Vendola si sono spartiti seconda e terza carica dello Stato. Un arroccamento che conferma la scelta di non voler aprire alcun dialogo con il Pdl, preferendo proseguire semmai - come dimostrano le candidature di Laura Boldrini e Piero Grasso - lungo la strada delle blandizie ai grillini, rivelatasi un vicolo cieco nell’unica partita che conta: quella delle trattative per il governo. La terzomondista vendoliana e il magistrato che in campagna elettorale aveva ipotizzato l’apertura di un’inchiesta per voto di scambio contro Silvio Berlusconi, dopo che costui aveva proposto di restituire agli italiani l’Imu del 2012, erano fatte apposta per essere rifiutate dal centrodestra. E sebbene abbiano diviso i parlamentari grillini, lasciano Bersani ancora lontano dai numeri necessari a fare un governo. Grasso è stato eletto presidente con 137 voti: una quindicina dei 54 senatori del M5S ha votato per lui, ma a Bersani per governare servono oltre venti voti in più. Il risultato è che da ieri le urne sono più vicine. In Parlamento gira già una possibile data: il 28 giugno. Dopo che Bersani ha reso impossibile ogni trattativa, ci vorrà un miracolo di Giorgio Napolitano per impedire il ritorno al voto in quella domenica o in un’altra, comunque vicina. Proprio per scongiurare un simile scenario, il presidente della Repubblica in mattinata aveva chiesto a tutti, ma soprattutto al Pd, scelte condivise per le presidenze delle Camere. Inascoltato. Il segretario del Pd si è preso la responsabilità di distruggere l’unica possibile via d’uscita dall’impasse in cui si trova il Paese dalla notte del 25 febbraio. Un percorso difficile, ma al di fuori del quale ci sono nuove elezioni in tempi rapidi e con l’attuale legge, che rischia di regalare ai grillini la maggioranza della Camera. Oggi infatti centrodestra, centrosinistra e M5S si aggirano ognuno poco al di sotto del 30% dei voti, e la lista grillina è quella che pare avere i maggiori margini di crescita; il Porcellum, come noto, assegna a chi arriva primo il 55% dei deputati. La via d’uscita consisteva nel dare vita a un governo sorretto da un’ampia maggioranza, che visti i numeri al Senato può essere solo quella formata da Pd, Pdl e montiani. Le stesse forze, nel frattempo, avrebbero riscritto la legge elettorale. Magari adottando l’uninominale a doppio turno sul modello francese, che per inciso è il sistema che più di tutti dovrebbe mettere in difficoltà i grillini. In caso di accordo tra i grandi partiti, questa o un’altra riforma può essere introdotta in tempi molto brevi. Ma, appunto, occorreva un’intesa forte tra avversari. Che in Parlamento si costruisce a partire dalla condivisione delle cariche. In quest’ottica, Berlusconi era già pronto a trattare sul nome di Massimo D’Alema al Quirinale. Ieri si è capito che per colpa di Bersani un accordo di tale portata non si potrà fare. Questo rende quasi impossibile l’impresa di Napolitano. Il presidente della Repubblica inizierà le consultazioni per cercare di formare il governo mercoledì 20 marzo. I numeri dell’elezione di Grasso affondano le ambizioni personali di Bersani. Pur servendo sul piatto ai grillini il candidato più appetibile, il leader Pd resta lontano dai 158 voti che gli servirebbero per avere la fiducia a palazzo Madama. Saliti sul Colle per le consultazioni, i presidenti di Senato e Camera proporranno comunque di dare una chance a Bersani, al quale devono la loro carica. E Napolitano potrebbe anche conferire al leader del Pd un mandato da svolgere in tempi rapidi, quanto basta per prendere atto del probabile fallimento e passare oltre. Quanto accaduto ieri preclude pure una delle soluzioni che in casi simili sono state adottate in passato: assegnare un mandato esplorativo alla seconda o terza carica dello Stato, affinché svolgano uno «studio di fattibilità» per la costruzione di una maggioranza stabile. Un lavoro di mediazione che né Grasso né Boldrini, per ciò che rappresentano, sono in grado di svolgere. Un problema che non si sarebbe posto se alla presidenza del Senato fosse andata Anna Finocchiaro. A Napolitano restano davvero poche carte. Il fatto che nella sua direzione remino il Pdl, i centristi e parte dello stesso Pd conta qualcosa, ma non abbastanza. Ormai è chiaro che non sarà attraverso un accordo tra partiti che nascerà (se nascerà in questa legislatura) il prossimo esecutivo. Non rimane che l’opzione del governo del presidente: un premier forte, con un nome di altissimo profilo - il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e il direttore generale Fabrizio Saccomanni sono quelli di cui più si parla in queste ore - mandato alle Camere da Napolitano per guidare un esecutivo sorretto da una maggioranza intenzionata a portare a termine il programma delle riforme. Guarda caso, è quello che ieri il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha detto che deve fare l’Italia, se intende continuare a essere protetta dalla Bce. Un programma che non può essere garantito da un governo dipendente dai grillini, ma sul quale Pdl, Pd e centristi dovrebbero convergere. Il trattamento che ha riservato a Monti dimostra che Napolitano intende avere un ruolo da protagonista e non da notaio. Proverà in tutti i modi a far passare una soluzione simile. Altrimenti al suo successore non resterà che sciogliere le Camere e far votare gli italiani sotto il sole. Nell’ipotesi possibile, ma non probabile, che dalle urne esca fuori qualcosa di meglio.