Intervista a Libero
Carlo Nordio a Pietro Senaldi: "Colpa di noi giudici se gli italiani non ci amano più"
«È vero, noi magistrati oggi siamo meno popolari rispetto a vent’anni fa, - rimarca Carlo Nordio, procuratore capo di Venezia - e la responsabilità è anche nostra. Il paradosso però è che si sorvola sui nostri peccati e ci si accusa di mali di cui non abbiamo colpa». Mi interessa di più sapere quali colpe attribuisce a voi toghe. «La magistratura sindacalizzata, quella che parla e fa notizia, è sempre stata autoassolutoria e conservatrice. Attribuisce tutti i mali della giustizia al sistema senza mettersi in discussione e si è sempre opposta a ogni riforma liberale: ha bocciato perfino quella della Bicamerale di D’Alema». Con il nuovo presidente dell’Anm, Davigo, la musica non sembra destinata a cambiare. «Non sottoscrivo la sua uscita in difesa delle intercettazioni. E abbiamo idee diverse sulla separazione delle carriere e sull’obbligatorietà dell’azione penale. Ha fatto bene invece a rispondere al premier per difendere la categoria dall’accusa di lavorare poco. Abbiamo una produttività doppia rispetto ai magistrati francesi». Il suo è stato un esordio puntuto verso il governo: si profila un nuovo scontro politica-magistratura? «Mi auguro di no e credo che non ci siano i presupposti. Mancano le leggi ad personam e i primi ministri indagati, e anche la polemica ha toni meno accesi. Però è inutile nascondere che ci sono elementi di problematicità». Allude alle intercettazioni? «Credo che Renzi sia stato mal interpretato quando ha detto che la legge sulle intercettazioni non sarà modificata. Non è stata una retromarcia ma l’affermazione che il governo andrà avanti con il piano di riforma che ha». Ne condivide il contenuto? «No, è troppo timida. Limitare la diffusione delle intercettazioni a ciò che il magistrato ritiene rilevante per l’accusa lascia troppi poteri al gip e al pm, che restano gli arbitri unici delle conversazioni che possono essere divulgate e di quelle da tenere riservate». Come interverrebbe se fosse il legislatore? «Le telefonate non devono essere considerate prove, ma mezzi di ricerca della prova. Come tali non dovrebbero mai essere allegate agli atti del processo se non quando manifestano un reato in atto. Dovrebbero restare nel cassetto del giudice, come avviene per le intercettazioni preventive, utili come strumento investigativo ma estranee al fascicolo processuale, e quindi non pubblicabili sui giornali». Quindi è d’accordo con Renzi quando dice che certe telefonate dell’ex ministro Guidi con il fidanzato non andavano divulgate perché troppo personali? «La loro divulgazione è stata legittima, visto com’è la legge oggi. Ma personalmente credo che molte telefonate dell’ex ministro fossero un fatto privato che avrebbe dovuto rimanere tale. Il problema è che la sensibilità del singolo magistrato è un criterio troppo evanescente per farne dipendere il sacrosanto diritto alla riservatezza. Perciò la legge va cambiata». Ho la sensazione che lei non apprezzi l’istituto in sé... «La mia quarantennale esperienza mi dice che le intercettazioni non sono quasi mai indispensabili come elemento di prova, mentre lo sono come spunto per le indagini. Comunque penso che l’utilizzo giuridico-mediatico che se ne fa oggi in Italia sia una porcheria indegna di un Paese civile, e che siano state troppo spesso strumentalizzate dalla politica». Ritiene giusto che un politico indagato si dimetta? «Nessuno si dovrebbe mai dimettere perché indagato, e tanto meno perché destinatario di un avviso di garanzia. Si ha il dovere di dimettersi solo se condannati. Altro discorso è l’opportunità politica». Quindi Renzi ha fatto bene a far dimettere i ministri Lupi e Guidi e a non mettere in discussione i sottosegretari Barraciu, Bubbico, De Filippo, De Caro...? «Non entro in questi casi singoli. La valutazione politica spetta al governo e ai singoli interessati. Quanto all’aspetto giuridico, non obbligando i suoi sottosegretari a dimettersi il premier non ha fatto che rispettare quella Costituzione che molti giudicano la più bella del mondo. Siamo tutti presunti innocenti fino alla condanna». La giustizia ha avuto un peso eccessivo nella storia politica italiana degli ultimi 25 anni? «Ne ha avuto, ma non bisogna confondere gli effetti con le intenzioni. Direi piuttosto che c’è stato un ampio uso delle inchieste da parte dei politici per farsi le scarpe l’uno con l’altro». Da Berlusconi a Prodi, e ancora a Berlusconi: tre governi caduti per le inchieste. Questa di Potenza può essere fatale a Renzi? «Non si può dire. Ma sarebbe intollerabile che la vita politica del Paese venisse ancora condizionata da un’inchiesta, per di più alle fasi iniziali». Ritiene che Berlusconi sia stato fatto fuori dai processi? «No. Ma ritengo che la notifica dell’informazione di garanzia fatta durante il summit di Napoli attraverso il «Corriere della Sera» sia stata l’inizio di tanti guai. E questo non per colpa di Berlusconi, ma di chi ha consentito che il segreto istruttorio fosse violato. E ancora oggi non sappiamo chi sia stato il responsabile. Questo è un evento che andrebbe chiarito quantomeno dagli storici». I giudici fanno troppa politica? «Credo che un magistrato non debba entrare in politica mentre è in carica e nemmeno dopo che è andato in pensione, soprattutto se nella sua carriera si è occupato di indagini che hanno avuto conseguenze politche. Le pare che dopo aver incarcerato il governatore del Veneto e il sindaco di Venezia, io potrei candidarmi a prendere il loro posto? Sarebbe di pessimo gusto». Come giudica il nuovo reato di traffico di influenze? «Per giudicarlo dovrei aver capito prima di cosa si tratta. Mi pare una norma oscura, di difficile interpretazione, concepita per dare un contentino ai professionisti dell’anticorruzione. Spesso i nostri politici creano reati spinti dall’indignazione popolare più che dalle esigenze della giustizia». Vale anche per il concorso esterno in associazione mafiosa, per il quale Dell’Utri è in carcere? «Le ripeto che non voglio entrare nei singoli casi decisi da altri colleghi. Ma dal punto di vista tecnico e logico considero il concorso esterno un ossimoro. Se si concorre si è dentro. Se non si è dentro, non si concorre. D’altronde questo reato non compare nel codice penale ma è solo un’interpretazione della giurisprudenza. Ho presieduto una Commissione che ha proposto di espungerlo dal diritto penale e rilegiferare in materia». Come si combatte allora la corruzione dilagante? «Non certo creando nuovi reati o inasprendo le pene, ma con una semplificazione normativa. Il corrotto non va intimidito, va disarmato. Bisogna togliergli gli strumenti che gli consentono di farsi corrompere, cioè le leggi numerose, oscure e complicate che gli attribuiscono una discrezionalità che sconfina in arbitrio. Corruptissima republica, plurimae leges diceva Tacito 2000 anni fa». A me pare che la soluzione del governo sia buttare la palla al commissario Cantone e che se la sbrigasse lui… «Cantone è persona qualificata. Ma è un errore aspettarsi i miracoli da lui. Comunque è meglio di niente». Il presidente della Consulta ha ricordato alla vigilia del referendum che il voto è un dovere. «Secondo me l’intervento del presidente è stato un errore. In democrazia il voto è un diritto, non un dovere, soprattutto se si tratta di un referendum abrogativo, dove l’astensione ha un significato unvioco che in vece manca nelle elezioni politiche o amministrative. Chi si astiene dice chiaramente che vuol far fallire il referendum, non che si affida al giudizio degli altri». Condivide il giudizio dell’Europa secondo cui la nostra giustizia è in condizioni drammatiche? «Certo. E andrà sempre peggio se non si aumentano le risorse e non si semplificano le leggi». Si dice che i maggiori guai li abbia la giustizia civile: 500 giorni per un processo… «Il problema principale è che ci sono troppe cause temerarie. Oggi conviene fare causa se si ha torto, così confidando sui tempi lunghi del processo si rimandano i pagamenti». Già, ma la soluzione? «Non credo siano necessari tre gradi di giudizio per tutte le cause civili. La maggior parte non merita neanche l’appello. E poi la legge pretende che per motivare qualsiasi sentenza il magistrato scriva un trattato giuridico. Niente appello e una motivazione di una pagina, questa potrebbe essere una soluzione». Ma non è pensabile di estenderla al processo penale… «Qui innanzitutto si deve snellire la procedura. Molte norme nate con lo spirito di tutelare i diritti di tutte le parti in causa ormai non hanno più senso. Se rubano il portafogli a un turista giapponese a Venezia, dobbiamo notificargli a casa, in giapponese, che non l’abbiamo trovato. E formiamo tre fascicoli: uno della polizia, uno del pm e uno del gip: un delirio. E poi c’è l’obbligatorietà dell’azione penale, un istituto che va riveduto». I magistrati non vogliono, così possono decidere quali reati perseguire e quali no senza assumersi la responsabilità della scelta. «È una di quelle posizioni conservatrici dannose a cui alludevo prima. Certo, il principio è stato strumentalizzato, ma è incompatibile con la struttura del processo penale accusatorio che ci siamo dati: se il pm è parte, deve scegliere. E anche la separazione delle carriere rientra nella logica del nuovo processo. Sono regole vigenti in tutti i sistemi dove vige il sistema accusatorio. Altrimenti abbiamo una Ferrrari con il motore della 500». Perché le toghe sono da sempre contrarie alla separazione? «La contrarietà alla separazione delle carriere dipende da molte ragioni, ma la più importante è il vantaggio personale di cambiare mestiere quando si vuole. Un benefit non da poco». È favorevole alla depenalizzazione dei reati? «È necessaria, se si vuole snellire il lavoro delle Procure. Il guaio è che per ogni reato che depenalizza, la politica ne introduce due di nuovi. Pensi al femminicidio oppure all’omicidio stradale, per cui si rischiano fino a 18 anni di carcere; nuovi reati creati per farsi pubblicità e inseguire la moda che in realtà puniscono azioni che erano già reati, magari con pene sproporzionate. Ogni sei mesi il nostro codice cambia, e alla fine anziché essere un’opera omogenea e seria diventa un guazzabuglio populista ingestibile». La depenalizzazione però non è molto popolare… «Perché non si spiega che cos’è. Non significa non punire ma dare sanzioni amministrative certe e rapide». Già, ma si parla di depenalizzazione anche per il reato di immigrazione clandestina. «L’immigrazione clandestina va fermata con mezzi politici, non giudiziari. Tra l’altro il clandestino incriminato ha il diritto di restare qui fino alla fine del processo. Il reato non solo è inutile, ma sortisce effetti contrari». Quanto è alto il rischio di terrorismo islamico in Italia? «Da cittadino che segue i giornali posso solo dire che non v’è ragione di escludere l’Italia dai Paesi ad alto rischio. Temo che prima o poi colpiranno anche da noi. Come ha detto Hollande, questa è una guerra». di Pietro Senaldi