Le amicizie scomode del premier

Denis Verdini amoreggia col Pd dal 2009. Ma a quell'epoca Bersani & C non fiatavano

Andrea Tempestini

La minoranza del Partito democratico ormai ne è ossessionata. Appena sente il nome di Denis Verdini salta sulla sedia e annuncia barricate. È successo anche l’altra sera, dopo l’apparizione di Matteo Renzi a Otto e mezzo. A una domanda di Lilli Gruber sulla possibilità che l’ex coordinatore di Forza Italia entrasse nella maggioranza che sostiene il governo, il presidente del Consiglio ha risposto che «ad oggi» il passaggio è escluso, aggiungendo però di osservare uno «sfarinamento» della destra che lo colpisce molto. Non una dichiarazione di apertura a Verdini, ma neppure una chiusura netta, con quel «ad oggi» messo lì come per contestualizzare che in futuro, in seguito allo «sfarinamento», le cose potrebbero cambiare. Tanto è bastato perché qualcuno interpretasse le parole del premier come uno spiraglio lasciato aperto per nuovi arrivi. E così Palazzo Chigi ha dovuto precisare con una nota che «Verdini e i suoi non fanno e non faranno parte del governo». E se «in futuro vorranno aggiungersi con i loro voti a singoli provvedimenti della maggioranza, questo riguarda esclusivamente la libera dinamica politico parlamentare e non la coalizione di governo». Caso chiuso? Mica tanto. L’ossessione della minoranza rimane. E rimangono anche i voti di Verdini, che ci sono e saranno determinanti per il sostegno del governo tutte le volte che sarà necessario. È comprensibile che la sinistra del Pd sia in allarme. Verdini, oltre ad avere una storia ingombrante, sia dal punto di vista politico che giudiziario, è un antidoto contro gli stessi oppositori del Pd. Con lui in campo, per la minoranza non c’è partita. Ogni minaccia, ogni ricatto, non ha alcuna efficacia. Se i contestatori interni di Renzi non vogliono votare qualche provvedimento del governo, a rimpiazzarli ci pensa Verdini e Renzi può dormire tra due guanciali, continuando a fare il bello e il cattivo tempo. Del resto di che stupirsi? Come può Pier Luigi Bersani dire di non volere l'ex coordinatore azzurro nel suo giardino, ovvero nel Pd? Verdini c’è, c’è sempre stato nel giardino del Pd, per lo meno da quando c’è Renzi. Non alludo al patto del Nazareno, ossia all’accordo politico stretto dal presidente del Consiglio con Silvio Berlusconi prima ancora che l’ex sindaco di Firenze diventasse capo del governo. Quella è storia nota, come pure sono noti i passaggi che hanno portato alla scrittura della legge elettorale, una riforma che ha visto la luce grazie a una trattativa diretta tra Verdini da una parte, Renzi e Boschi dall’altra. No, quando parlo della presenza dell’ex braccio destro di Berlusconi nel giardino del Pd alludo alla stessa nascita politica di Renzi. Verdini e il premier si conoscono da una vita, probabilmente da prima che il presidente del Consiglio debuttasse in politica. Di sicuro la conoscenza risale ai tempi della sua iniziale esperienza da amministratore, quando divenne presidente della Provincia di Firenze. Ma ciò che conta e rafforza il rapporto sono le primarie con cui Renzi divenne sindaco di Firenze. Bisogna tornare indietro di qualche anno, ossia al 2009, quando il Pd decise di consultare la base per scegliere il candidato di Palazzo Vecchio, un passaggio che per la predominanza dell’elettorato di sinistra nel capoluogo toscano di fatto rappresenta la vera sfida per l’elezione del sindaco, che poi viene ratificata dalla regolare consultazione. Le primarie del 2009 furono particolari, perché il candidato più accreditato era un assessore uscente della giunta Domenici, Graziano Cioni, uomo forte dell’ex Pci, già deputato e senatore. Ma guarda caso, proprio poco prima che i simpatizzanti della sinistra venissero consultati (le primarie erano aperte a tutti), la Procura della Repubblica indagò Cioni per un’operazione immobiliare della Fondiaria di Salvatore Ligresti. Uscirono anche delle intercettazioni poco simpatiche e il candidato forte del Pd fu costretto al passo indietro. In campo rimasero Lapo Pistelli, un cattolico di sinistra, un paio di esponenti dell’ex Pci e Matteo Renzi. Il vincitore accreditato divenne Pistelli, il più conosciuto e il più sostenuto. Ma una volta aperte le urne si scoprì che a vincere le primarie, con oltre cinquemila voti di distacco rispetto a Pistelli, era stato Renzi. Uno dei candidati, Daniela Lastri, scrisse chiaro e tondo che qualche cosa di poco chiaro era successo. Ma non serve un’indagine per scoprire le ragioni di tali dichiarazioni perché Mario Valducci, allora responsabile degli enti locali per Forza Italia, si attribuì i meriti dell'operazione. Gente di centrodestra si era imbucata nelle sedi del Pd votando per Renzi. Meglio lui, che era amico di Verdini, degli altri. Ovviamente le dichiarazioni sono agli atti, riportate da tutti i principali organi di stampa. Eppure allora Bersani, che non era uno sconosciuto ma uno dei big del Pd e prossimo segretario, non disse niente. Verdini era già nel giardino del Partito democratico eppure nessuno fiatò. Che i voti di centrodestra decidessero il sindaco di una delle principali città di centrosinistra non allarmava. Forse quelli che oggi sono minoranza nel Pd erano distratti o forse pensavano che il giovanotto di Palazzo Vecchio, anche se scelto con il contributo degli uomini dell’ex coordinatore azzurro, non fosse un problema. Sta di fatto che l’operazione a cui assistiamo oggi viene da lontano, da molto lontano. Come oggi fa capire Verdini a chi incontra, la sua è un’operazione politica. Renzi ha sempre saputo di poter contare sui voti di una parte del centrodestra e per questo fin dall'inizio ha fatto il bullo con la minoranza di sinistra. Verdini è nella maggioranza a pieno titolo. Lo è sempre stato, per lo meno da quando Renzi sta a Palazzo Chigi. Bersani e i suoi se ne facciano una ragione. di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet maurizio.belpietro@liberoquotidiano.it