La bancarotta del Pd

Pd, a sinistra una poltrona è per sempre

Lucia Esposito

di Franco Bechis Tanti anni fa, in piena tangentopoli, il pm Antonio Di Pietro un giorno dovette interrogare da magistrato quello che da presidente del Consiglio lo avrebbe nominato suo ministro: Romano Prodi. All’epoca Prodi era presidente dell’Iri e Di Pietro che evidentemente leggeva poco i giornali, si fece raccontare scandalizzato il sistema di nomine della Prima repubblica: i partiti che la facevano da padrone, le poltrone pubbliche che diventavano così affare privato delle correnti e delle satrapie. Da allora ad oggi una sola cosa è cambiata: anche il partito fondato da Antonio Di Pietro, l’Italia dei valori, si è comportato con la cosa pubblica come fecero all’epoca Dc, Psi e partitini vari. Nelle Marche addirittura si sono formate correnti Idv e battaglie furiose per una poltroncina in una municipalizzata multiservizi. Quel che venti anni fa scandalizzava tutti, oggi in silenzio è diventata regola comune della sinistra, perfino della sinistra giudiziaria. Eppure non dovrebbe sfuggire né a Di Pietro né al suo ex alleato Pier Luigi Bersani, cui anche gli avversari rendono spesso l’onore delle armi («è una persona perbene»), che anche il sopportabile è stato superato con quel sistema codificato dal Partito democratico nel suo regolamento finanziario. Come spiegato in questa pagina il Pd si arroga il diritto di nominare un proprio accolito in una società pubblica facendogli retrocedere una parte dello stipendio ottenuto. Ci sono varie formule per imporre questa «taglia» sullo stipendio dei nominati. Se la magistratura volesse dare un’occhiata a quei regolamenti, scorgerebbe non poche illegalità in alcune formule azzardate da federazioni locali (di sicuro in quelle che estendono l’obbligo di versare al partito nominante una percentuale anche ai non iscritti). Ma al di là dell’olezzo corruttivo che queste formule maldestre fanno sentire, è il sistema stesso che dovrebbe essere cancellato senza se e senza ma da un partito che vorrebbe candidarsi alla guida del governo di un paese come quello di Bersani. Se coscienza ancora esiste in politica, il leader Pd si renda conto che non è da persone perbene consentire l’occupazione sistematica della cosa pubblica ai satrapi del proprio partito. E ancora meno lo è pretendere da chi così avventurosamente è stato catapultato in un consiglio di amministrazione di una municipalizzata, o di una società dello Stato, il versamento a un partito che lì lo ha portato. È evidente il senso che si offre di quella nomina: se il Pd avesse scelto un luminare, dovrebbe pagargli il disturbo per la scelta, e non minacciarlo di non essere rinominato se non paga il dovuto. In quale democrazia occidentale sarebbe consentito un testo come quello contenuto nel regolamento finanziario del Pd?  Se si chiama un esperto, un professionista ad amministrare una società pubblica, è un favore che si rende a tutta la comunità dei cittadini. È giusto vantarsene, perfino pavoneggiarsi per questo. Ma imporre una taglia e minacciare «se non paghi non verrai più nominato», non è accettabile in alcun sistema politico e probabilmente in qualsiasi Stato in cui la parola «legalità» abbia ancora un senso. Se quel manager, se quel consigliere di amministrazione benchè con il peccato originale di una nomina politica, avesse dato buona prova di sé e ben amministrato la cosa pubblica, lo si fa fuori perchè non paga quanto un partito politico gli chiede? Che c’è di più ingiusto e di più sprezzante per il bene comune di una norma di questo tipo? Si potrà mai ascoltare un predicozzo sulla legalità, sulla corruzione, sul falso in bilancio, di un leader politico che conservi nel suo partito una regola da far west come questa? Forza, Bersani, cancelli quel regolamento se mai vorrà essere ritenuto credibile dagli italiani.