Il ritratto di Perna
Salvini, il più comunista dei leghisti che ha fatto il botto con la Le Pen
Perfino andando in Corea del Nord, il leghista Matteo Salvini, ha dato un’interpretazione lombardo-ticinese alla sua visita. Matteo è capitato nella penisola asiatica quindici giorni fa in viaggio d’istruzione con il senatore di Fi, Antonio Razzi (quello di Crozza), che di quei luoghi è patito. Notoriamente, la Corea comunista è in balia di un paranoico, Kim Jong-un, detto il “Brillante compagno”, figlio del defunto “Caro Leader”, che ne fece più di Jack lo Squartatore. Un inferno. A Salvini invece è piaciuta da matti. Cosa ha visto Salvini, anziché indottrinamento, fucilazioni e bavagli? Ordine e pulizia come nella Padania che vorrebbe. Al suo rientro, ha dichiarato ai quattro venti: «In Corea non c’è cartaccia per terra, è pulita come la Svizzera. Tutti i ragazzini fanno sport, magari fosse così anche a Milano. Non c’è criminalità, né prostituzione». Una percezione domestica, da cara donnina che vede nel nitore delle strade e nei giochi dei fanciulli l’appagamento dei suoi valori più cari. Questo è Salvini, la cui psicologia elementare coincide con la scritta della sua maglietta verde preferita: «Milano. Viverci un onore, difenderla un dovere». Il neo segretario della Lega Nord (lo è da soli nove mesi) è una brava e limitatissima persona cui repelle tutto ciò che esula dai confini della Padania. Paragonati a lui, i due predecessori, Umberto Bossi e Bobo Maroni, sono spiriti universali, avendo a lungo soggiornato a Roma e bazzicato il governo centrale. A Matteo, detto Teo, la Capitale fa invece accapponare la pelle. Ha passato i suoi 41 anni di vita a evitarla, impresa ostica per un politico. Due volte gli è toccato scenderci perché eletto deputato. Ma è scappato alla prima occasione, preferendo all’afa teverina le nebbie di Strasburgo. Nel 2008, resistette un anno. Poi, rantolante, si fece eleggere alle Europee del 2009 e se la svignò. Rieletto a Roma con le Politiche 2013, ma ancora in forze all’Ue, si tenne il seggio di Strasburgo, lasciando la suburra capitolina a un collega. Per lui il Centrosud è tabù. D’altronde, quando ci è venuto a contatto, è rimasto scottato. Ecco come. Cresciuto nel culto di Bossi, Teo ha voluto imitarlo impalmando pure lui una ragazza di origine meridionale. Fabrizia, di cui fu innamoratissimo, era pugliese. Ebbero insieme Federico, oggi undicenne. Le nubi arrivarono presto anche perché lei era vicina ad An, mentre Teo era un leghista piuttosto comunistoide. Infatti, aveva avuto un’esperienza al Leoncavallo, il centro sociale più “in” di Milano, che gli ha lasciato in eredità l’orecchino alla Nicky Vendola che porta tuttora. La rottura con Fabrizia lo confermò nella convinzione che là dove prospera l’ulivo, lui si deprime. Ora vive con Giulia, che incarna il detto «moglie e buoi dei paesi tuoi», da cui ha avuto Mirta, oggi di due anni. Andirivieni sentimentali a parte, Teo è uomo di fermissime e immobili convinzioni. Si nutre di quattro venerazioni identiche da sempre: Bossi, Maroni, il Milan e Fabrizio De Andrè. Bossi, il mito del passato, sta in una teca come una reliquia da adorare. Maroni è il suo caro leader cui deve gratitudine per l’elezione a segretario e obbedienza. Non ne condivide però, sia pure rispettosamente, gli odi verso l’ex cerchio magico di Bossi e, se fosse per lui, almeno Marco Reguzzoni potrebbe senz’altro rientrare nel giro. Il Milan rappresenta la domenica allo stadio e il solo legame con il Cav che, per il resto, gli dà l’orticaria. De Andrè, infine, è stata la colonna sonora dei suoi amori e delle mattane nei centri sociali. Ogni estate, con la sciagurata eccezione coreana di quest’anno, si imbarca per la Sardegna e trascina amici e parenti a Tempio Pausania per la visita del covo in cui il cantautore fu tenuto prigioniero dai briganti. Col babbo agiato dirigente d’azienda, Teo poteva diventare uno yuppie con master americano e carriera allo studio Ambrosetti. Ha scelto invece di passare le gioventù a distribuire volantini leghisti tra i banchetti dei mercatini. Diciottenne, arrivava nelle piazze in abiti seicenteschi, tipo Renzo Tramaglino, per propagandare iniziative culturali di sua invenzione. Non abbondando la Lega di intellettuali, anche Teo poteva fare la sua figura nonostante abbia un curriculum universitario da zuccone. È iscritto a Lettere da ventidue anni. Gli mancano la tesi in Storia e cinque esami. Non li dà, ma rinnova annualmente l’iscrizione per scaramanzia. A vent’anni, nel 1993, quando la Lega con Marco Formentini conquistò Milano, Teo entrò in consiglio comunale. Ci è rimasto diciannove primavere. A lungo sbarcò il lunario con 800 euro il mese. Gli andò meglio quando fu eletto a Strasburgo. Da consigliere ha fatto tutte le idiozie per le quali è famoso. Una volta rifiutò di stringere la mano al presidente Ciampi in visita a Milano sibilandogli: «Lei non mi rappresenta». Un’altra propose di riservare ai milanesi alcune carrozze dei mezzi pubblici per separarli dagli extracomunitari. Infine, fu filmato mezzo brillo alla festa di Pontida mentre intonava cori sui napoletani ladri e sporchi. Poi, si scusava ogni volta per la sua esuberanza ruspante. È finita che gli avversari l’hanno preso a benvolere considerandolo un bonaccione. Quando, nel 2012, dette l’addio al consiglio comunale, il sindaco vendoliano, Pisapia, disse pubblicamente: «Ci mancherai». Il bilancio da segretario è considerato dai fan molto positivo. Ha schierato la Lega contro l’euro, facendone la forza politica italiana più euroscettica, e contro l’immigrazione immillata da Mare Nostrum. Ha anche promesso un referendum sull’indipendenza lombarda. A maggio, i risultati delle Europee lo hanno premiato, con un progresso del partito di trecentomila voti sulle politiche del 2013. Poi ha compiuto un atto di rottura, più rispetto alla sua storia personale che di quella leghista: si è alleato con Marie Le Pen, campione della destra francese e storcibudella del benpensantismo europeista. Il sinistrismo del nostro leoncavallino è stato infatti profondo e duraturo. Matteo è il fondatore dei “Comunisti padani” che rappresentò nell’autoproclamato Parlamento della Padania (1997). A questo si riferiva Max D’Alema quando sentenziò che la Lega era una «costola della sinistra». Che oggi Salvini sia passato da Marx a Le Pen conferma che il mondo è bello perché è vario. L’abilità comunicativa di Matteo è tra i cardini del suo successo. Giornalista professionista, Salvini comincia ad apparire alle sette di mattina nelle tv padane e va avanti fino a sera sulle reti nazionali. Pochi peli sulla lingua, una parola forte su due. Ha inoltre uno staff che risponde 24 ore su 24 agli elettori sui social network. Se salta uno di questi appuntamenti, è andato a donare sangue. È un fan dell’Avis e spesso organizza donazioni tra militanti. Uno sciocco gli chiese se questo scambio tra leghisti era per evitare che sangue padano finisse in vene extracomunitarie. «Il sangue ha un solo colore», replicò Salvini dimostrando che la risposta più semplice è la migliore per dare del cretino a un cretino. di Giancarlo Perna